Genzina dai capelli di fuoco
Viva ancora per poco
A Souso si sporca d’inchiostro
A casa ritorna di notte
e viene riempita di botte
La notte inghiottì una fluente chioma rossa come le bacche dell’anighé
Dopo “Il Vento dell’Antola” Cristina Raddavero ci trasporta con Autra da chi nell’atmosfera magica e suggestiva della parte estrema della Val Borbera, l’Appennino Ligure-Piemontese oggi disseminato di cascine abbandonate e paesi fantasma come Reneuzzi.
Autra da Chi è un’espressione tipica del dialetto di Piuzzo, frazione di Cabella Ligure, un idioma ibrido ligure-piemontese con accenti piacentini.
Autra da Chi racconta due storie parallele, è una sorta di opera aperta che può essere interpretata dal lettore.
La prima è la storia di Gilda e Goffredo. Gilda è una ragazza dai lunghi capelli fulvi della Val Borbera che collabora con una testata locale e lavora come guida turistica. Si appresta ad accompagnare un gruppo nel noto giro delle dodici fontane, un suggestivo percorso che partendo appunto dalla parte abitata dell’alta Val Borbera si inoltra tra le montagne dell’appennino ligure-piemontese toccando anche il villaggio di Souso.
Goffredo è un professore settantenne di storia medioevale. Tra lui e Gilda nel corso del cammino nasce una sorta di reciproca infatuazione platonica, che ricorda da vicino quella di Dante e Beatrice “le parole pronunciate da una perfetta sconosciuta erano quelle che, in realtà, voleva sentirsi dire. Non c’era volgarità in quella frase, C’erano soavità e purezza. C’era la Beatrice di Dante e la Laura del Petrarca”.
Improvvisamente, il racconto di Gilda ci trasporta nella Piuzzo del Medioevo, nel nono secolo A.C.
Qua il controllo del territorio è diviso fra il convento dell’Abate Giacomo e la comunità paesana guidata da Fausto, fratello di Genzina.
Genzina è una ragazza figlia di contadina, dalla lunga chioma fulva come Gilda che sogna di diventare copista, ma è fortemente osteggiata dalla sua famiglia e in particolare dal fratello Fausto.
Mentre quella filastrocca le risuona ossessivamente in testa.
Genzina incontra l’abate Giacomo del piccolo cenobio di monaci e fra loro nasce un rapporto molto intenso, quasi come fra padre e figlia. Ma forse, Giacomo prova per la ragazza una sorta di amore impossibile, come Goffredo per Gilda.
E così, forse a malincuore, la invita ad abbandonare il cenobio una volta imparate le tecniche di scrittura e copia.
Ma la ragazza non può e non vuole tornate dalla sua famiglia e preferisce vagare nel bosco…che fine farà?
Come ho già accennato, il libro è un’opera aperta che insinua un legame misterioso fra i protagonisti del racconto contemporaneo e quello medioevale, fra Gilda/Genzina e Giacomo/Goffredo. Accomunati anche dalle iniziali, storie parallele di “ricerca della bellezza e dell’amore intesi alla maniera platonica nella loro suprema valenza di ideali”. Gilda e Goffredo, a seconda delle convinzioni religiose o delle impressioni del lettore, possono essere visti come i discendenti di Genzina e Giacomo o come la reincarnazione degli stessi.
Il libro è permeato da un forte senso di magia e suggestione. Il fantasma della ragazza del medioevo dai lunghi capelli rossi ci sembra di percepirlo vagare tra le montagne della Val Borbera come quello di Daniele l’Assassino ne “Il Vento dell’Antola”. Interessantissimo anche i l glossario finale sul patrimonio linguistico dialettale di Piuzzo, una ricchezza da non disperdere oltre che utile al lettore ignaro della parlata locale (il libro è in lingua italiana quindi accessibile a tutti, con numerose parole dialettali). E Gilda, che nel finale si prepara ad andare “autra da chi” avanti da questa parte, altrove, porterà sempre con sé le proprie radici.
Un testo breve, ma intenso ed emozionante, forse non facilissimo perché richiede un’immersione totale in un mondo scomparso, ma che davvero vale la pena di leggere. Ottima la qualità della scrittura, sintetica e ricca di spunti poetici.
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