lunedì 5 ottobre 2020

Recensione Romanzo - BY ANDREA - L'ORTO FASCISTA di Ernesto Masina

 













Valle Camonica, 1943. Con l'occupazione tedesca, anche a Breno i fascisti hanno rialzato la testa. Nel bar Monte Grappa, tra un torneo di briscola e una bevuta, si ordiscono le trame e si ordisce un piccolo attentato, allo scopo "di dare una lezione ai quei dannati tedeschi". Non tutto procede per il verso giusto. Persino i collaborazionisti, da don Pompeo alla "Signora Maestra" Lucia, stimata Custode dell'Orto Fascista, vengono coinvolti in una girandola di equivoci. Tra un sidecar che salta in aria e qualche rappresaglia, anche i bambini prendono parte a una singolare tragicommedia che a volte sfiora la pochade.



                      







L’orto fascista di Ernesto Masina è un singolare romanzo storico ambientato nell’Italia repubblichina occupata dai tedeschi. Siamo nel bresciano, a Breno, nella provincia profonda che costituisce la vera essenza dell’Italia.

La “signora maestra” Lucia è la responsabile del nuovo “orto fascista” che si appresta ad essere inaugurato a Breno. Lucia, 37enne all’apice della sua bellezza, è la moglie del Podestà. L’orto fascista del quale è custode è uno terreno sassoso e poco produttivo sequestrato a un contadino dissidente, che nella propaganda di regime, la mistica fascista, diventa il simbolo della nuova agricoltura autarchica. Alla faccia della retorica dei “treni in orario” il localino Brescia-Edolo arranca fino al paese sede dell’orto, Pisogne, con almeno un’ora di ritardo. Nel frattempo Lucia, bellissima e desiderata da uomini e talora anche donne, è coinvolta in una serie di equivoci e retroscena sessuali da pochade assieme al segretario locale del PNF, detto longa manus per il vizio di molestare le donne. Fino a che a Lucia non accadrà un evento che la traumatizzerà psicologicamente sul serio.

L’orto fascista disegna personaggi tipici della provincia italiana, come il farmacista “femminaro” come avrebbe scritto Andrea Camilleri Temperini. Ed è nel bar del paese, simbolo anche dell’Italia profonda della provincia, che si complotta un attentato contro gli occupanti tedeschi e i loro collaboratori fascisti.

Temperini è fra i registi dell’attentato. Nel frattempo, i fascisti del paese organizzano sedute di tortura per i dissidenti, fra i quali lo stesso farmacista, mentre l’orto si rivela una vera e propria farsa.

Il complotto sortisce una vittima tra gli occupanti tedeschi, al di là della volontà degli attentatori stessi che volevano solo far saltare una macchina. Il capo degli occupanti nazisti, Hauptmann Reserve Franz, si trova insieme a una ragazza del paese, Benedetta, che accusa di essere complice degli attentatori perdendo anche la sua unica possibilità di amare.

Per conoscere i nomi degli attentatori si fa pressione sul prete del paese, ma c’è il segreto confessionale. Ma i bambini, con la loro innocenza e la loro libertà innata, sono pronti a scendere in campo e fare quello che non è riuscito al Tempestini? Ce la faranno?

Non anticipiamo un finale per certi versi sorprendente.

L’orto fascista è un testo interessante, perché rilegge il periodo finale del ventennio e dell’occupazione nazista in senso tragicomico. La scrittura è piacevole, anche se i personaggi sono un po’ stereotipati, come macchiette della commedia italiana, privi di spessore psicologico vero.

C’è un’eccezione: il comandante dei nazisti Hauptmann Reserve Franz. Questo è un personaggio interessante, simbolo di quella che Hannah Arendt definiva la banalità del male. Non un nazista convinto, un esecutore di ordini che tiene famiglia e non si fa troppe domande. E che era riuscito anche a trovare l’amore a Breno, per riuscire a perdere anche quello.

L’orto fascista è una lettura utile anche a settanta anni di distanza, quando venti di autoritarismo e limitazione della libertà tornano prepotentemente a percorrere il mondo intero. Quando la propaganda di un eventuale “orto fascista” odierno sarebbe amplificata a dismisura da tv e social network. La storia dovrebbe essere maestra di vita, ma a quanto pare non ci ha insegnato nulla.

E quando l’Italia profonda dei centomila Breno e Pisogne sparsi per il paese, con i loro personaggi caratteristici e la loro geometria segreta dei retroscena sentimentali e sessuali, è sempre uguale, solo un po’ più “social”, ma sostanzialmente immutata. Anche i collaborazionisti o i fascisti come Manucelli, Lucia, Don Pompeo non sono tutto sommato così disumani. Come se questo piccolo mondo provinciale fosse l’ultimo antidoto contro la disumanità.














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