Tra tentativi di mettersi in contatto con quel misterioso internato per scoprirne l’identità, e forse salvarlo da lì, e il tormento dei protagonisti per esorcizzare il loro passato recente, la storia percorre spietata la realtà italiana degli OPG, i vecchi manicomi criminali.
Sullo sfondo, dentro e fuori la nefanda struttura sanitaria, si muove una schiera di personaggi minori, ugualmente protagonisti di una personale disperazione che incontra quella di Domenico e Giulia, ma che non può lasciare indifferente nessuno di noi.
Una storia incredibile ispirata a fatti realmente accaduti, e una denuncia sociale che ci coinvolge tutti.
PROLOGO
Mi
si snebbiano gli occhi al risveglio, mentre sento di non poter
muovere i polsi. Ci metto poco a capire che sono legati al letto:
strisce di cuoio, con ogni probabilità. E questa mi pare già una
fortuna, visto che in alcuni posti ti legano con semplici strisce di
stoffa, strette fino a fare male, che ti bloccano la circolazione e
tagliano la pelle a ogni tentativo di movimento. La luce che vedo è
quella del giorno, l’unica finestra non ha imposte ma solo sbarre.
È chiusa, ma sento lo stesso il vocio degli altri internati nel
cortile di sotto e un rumore di ghiaia sotto ai loro passi
strascicati e fiaccati dalle terapie coatte e sedanti.
Speravo di
non entrarci più, qui dentro, ma ci sono tornato. Sono passati anni,
eppure l’odore di malato è sempre lo stesso. Mi guardo intorno e
intuisco, dal tanfo di piscio stantio e di disinfettante che non
riesce a coprirlo, che sotto il letto è stato messo un pappagallo
per l’urina. Eppure c’è una porticina scorrevole e spessa che
dev’essere quella del bagno. Loro però non te lo lasciano usare,
ci vanno solo a prendere l’acqua per lavare la padella in cui devi
fare i bisogni. Se ti va bene, perché più di una volta ho visto
invece pazienti legati, lasciati lì ad agitarsi nelle proprie feci,
bagnati di urina e sporchi fino alla punta dei capelli.
Per questo
dico che mi è andata bene, anche stavolta: ho conosciuto posti dove
solo un buco nella rete metallica permetteva di espellere gli
escrementi senza doverci rantolare dentro, a parte il fatto che si
veniva legati da nudi e la rete era quasi sempre arrugginita e sporca
delle schifezze di chissà quanti altri prima di noi.
Loro
potrebbero arrivare da un momento all’altro, per controllarmi, come
anche no. La telecamera a circuito chiuso, che mi guarda da un angolo
del soffitto, è visibile dalla guardiola e basta e avanza, la
maggior parte delle volte. L’unica speranza per riuscire a chiedere
almeno una sigaretta è chiamare a gran voce, sperando che al piano
ci sia qualcuno e che poi abbia voglia di starmi a sentire.
Non ho
niente addosso se non maglietta e mutande, e non ne ho a sufficienza
per potermi cambiare se serve, o dopo la doccia che di tanto in tanto
si riesce a ottenere.
Ora mi trovo legato perché ho opposto una
dura resistenza al momento di venire ricondotto qui; a qualcuno forse
ho procurato dei lividi, ma non abbastanza visto che ho avuto la
peggio, come d’altronde temevo che andasse.
E rieccomi allora al
punto di partenza, lo stesso dove sono già stato per cinque anni non
molto tempo fa, e dove non sembra cambiato nulla, almeno non nella
stanza di isolamento in cui sono rinchiuso.
Non credo che uscirò
tanto presto da qui, anche se spero di farcela ad abbandonare questo
soffitto bianco che mi guarda imperterrito e spocchioso, irridente e
stronzo per la mia forzata impotenza.
Mi chiedo però se io sia
ancora in grado di sopportare tutto questo, di nuovo, dopo aver
assaggiato la libertà. E che libertà! Chissà se quelli che ho
lasciato là fuori ora stanno bene, se poi hanno risolto qualcosa
della loro vita e chissà quando potrò comunicare di nuovo con
loro…
È la solitudine ciò che sconvolge davvero in una stanza
d’isolamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, la
consapevolezza di aver perso i contatti con qualsiasi persona al
mondo tu conosca, tagliati di netto da
un’entità giudiziaria
che ha qualsiasi potere su di te, anche quello di farti sentire una
merda più di quanto tu non faccia da solo.
Inutile piangerci
sopra, non servirebbe a niente e so bene quale soddisfazione darebbe
ai miei meschini carcerieri. Esseri venuti dal nulla, che nulla
contano all’infuori di questa recinzione e che qui invece trovano
quel potere e quelle occasioni di comando arbitrario che non avranno
mai nella vita reale, e questa certo non la è. Capaci solo di
sfogarsi su chi potere non ne ha più, neppure per andare al
cesso.
Bentornata all’inferno, anima mia, fatti forza e coraggio
perché solo quelli forse ti salveranno. É te che cercano, lo sai,
ed è te che proveranno ad annientare in tutti i modi che conoscono.
Sono bravi in questo, sono potenti e intoccabili, ma tu mi servi
sopra ogni altra cosa.
Bentornata in OPG!
Dopo aver lasciato la Statale di Milano, dov’era iscritto al corso di Filosofia, e una lunga gavetta nel commerciale, è diventato un pubblicitario per poi riconvertirsi alcuni anni dopo all’editoria. Ha lavorato come promoter e ufficio stampa per autori ed eventi nazionali. Oltre ad “Angeli e folli” e “Nella pancia del mostro” ha pubblicato “Confessioni di un cameriere: Racconto crudele” (Oakmond Publishing, 2019) e auto-pubblicato “Dalla cenere: racconti scritti dal bordo del posacenere”, “Strade sporche” e “Il gioco del castello” (quest’ultimo con autori e autrici vari).
Dopo aver lasciato la Statale di Milano, dov’era iscritto al corso di Filosofia, e una lunga gavetta nel commerciale, è diventato un pubblicitario per poi riconvertirsi alcuni anni dopo all’editoria. Ha lavorato come promoter e ufficio stampa per autori ed eventi nazionali. Oltre ad “Angeli e folli” e “Nella pancia del mostro” ha pubblicato “Confessioni di un cameriere: Racconto crudele” (Oakmond Publishing, 2019) e auto-pubblicato “Dalla cenere: racconti scritti dal bordo del posacenere”, “Strade sporche” e “Il gioco del castello” (quest’ultimo con autori e autrici vari).
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