Respiro Readers
vi segnaliamo il romanzo
dell'autore Luca Murano.
TITOLO: Pasta fatta in casa. Sfoglie di racconti tirate a mano
AUTORE: Luca Murano
CASA EDITRICE: Bookabook
GENERE: Narrativa
PAGINE: 160
PREZZO EBOOK: 7.99
PREZZO CARTACEO: 12.00
DATA USCITA: 5 Luglio 2018
Pasta fatta in casa è una raccolta di racconti incentrati sull’agio e sul disagio dei vari protagonisti. Essi, slegati l’uno dall’altro, sembrano però raccontati dalla stessa voce narrante che si declina in più storie, aprendo il sipario su ambientazioni urbane, diversi fraintendimenti, malesseri autentici e problematiche poco originali. Fra queste pagine non troverete eroi morali o paladini della giustizia, ma piuttosto lo stridente contrasto fra persone normali che fanno cose semplici e il mondo attuale, un mondo accelerato e decadente che di normale, ormai, ha ben poco.
Un cigolìo. Qualcosa cigola. Forse i miei pensieri, forse la sedia imbottita sulla quale mi sembra di essere seduto. Mi sento comodo, con il fondoschiena e le spalle al sicuro. Un’inquietudine crescente, però, annaspa sulla superficie della mia mente. Sto sognando, ma forse non è così. Per scoprirlo devo schiudere gli occhi ma ho paura, come quando da bambino, durante le prime notti di rinuncia alla luce in camera, mi nascondevo con la testa sotto le coperte, con gli occhi sigillati, credendolo l’unico modo per tenere lontani da me e dalla mia famiglia Freddy Kruger e lo squalo di Amity.
Ma non sono un bambino; non sempre. Li apro. Gli occhi. Quello che vedo non mi piace. Un avambraccio tatuato e peloso, a pochi centimetri dal mio viso, ingombra la mia visuale. Un geco, mi pare, nero, come la notte quando litiga col giorno, intrappolato per sempre su quell’arto. O almeno fino a quando il braccio stesso non inizierà a invecchiare, raggrinzirsi, morire, e con esso, il rettile nero.
La minaccia d’inchiostro, finalmente, si ritrae, i miei occhi incrociano uno sguardo… il mio. Di fronte, uno specchio enorme fa finalmente luce sulla mia situazione: sono seduto su una poltrona girevole e avvolto dalla vita alla base del collo da un drappo nero. Tutt’intorno una stanza che tende a più infinito, vuota e immersa in un bianco disadorno. In lontananza, la voce analogica di un radio-notiziario blatera qualcosa su New York.
Il titolare del tatuaggio, un tipo sulla quarantina, abbronzato e palestrato, mi prende per i capelli e, fissando dritto gli occhi la mia immagine intrappolata nello specchio, sussurra: «Cosa vogliamo fare?».
Non è un tono minaccioso, in ogni caso nemmeno un suono che mi faccia sentire al sicuro. Alzo un poco lo sguardo. Su di me, pale plasticose girano vorticosamente riciclando aria stantia e nuvole di borotalco. Sento una goccia di sudore solcare il mio viso e dividere la faccia in due distinti emisferi.
«Ehi, tutto ok?» fa lui. Io non riesco a parlare come se tutto il fiato che avessi in corpo si fosse rintanato nell’emisfero sbagliato. Il tizio biascica qualcos’altro, ma non riesco a sentire tanto sono preso dal tentativo di tirar fuori un filo di voce. Urla silenziose, le mie. Sentendomi incalzato, faccio un cenno con la testa. Giusto in tempo per vedere il geco lanciarsi contro di me. Chiudo gli occhi e stringo i denti, in attesa di sentire un’esplosione, un boato, la redenzione.
Nulla.
Non sento niente.
Solo un rumore di forbici che sforbiciano e i miei capelli che cascano, inerti e copiosi, davanti ai miei occhi.
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