Motivazione dell’opera:
Erano almeno cinque anni che desideravo scrivere un romanzo ambientato nel mondo nel calcio: non il classico panegirico di un celebrato campione, un testo infarcito di aneddoti di dubbio interesse, quanto piuttosto un romanzo vero e proprio, in cui il ritmo della narrazione avesse la cadenza frenetica delle telecronache e la voce assordante delle curve di uno stadio; ma che comunque riuscisse a restare romanzo, dall’inizio alla fine, come è riuscito a fare (tanto per fare un esempio) Enrico Brizzi con “L’inattesa piega degli eventi”, novel distopica, ambientata in una linea temporale alternativa, ma che risulta intrisa dell’odore dei campi di calcio e degli spogliatoi, dei suoni e delle voci di una partita di pallone.
L’occasione si è presentata sul finire del 2017, quando il figlio di Roberto Tancredi mi ha rivolto una domanda che era buffa per davvero: “Quanti soldi chiederesti per scrivere la storia di mio padre?” Nell’udire la mia risposta, “Per poterla raccontare sarei disposto a pagare io”, sulle prime sembrava incredulo, come se non riuscisse a prendermi sul serio.
Ho avuto il mio bel da fare per riuscire spiegargli le motivazioni che mi muovevano, ma soprattutto per fargli intendere cos’era che desideravo scrivere e cosa, soprattutto, non sarei mai riuscito a fare. “Sono un romanziere,” dissi, “e riesco a scrivere solo romanzi. Per cui dimenticati che possa scrivere una biografia. Ma soprattutto metti in conto che ho intenzione di giocare coi personaggi, mettendoli in scena e piegandoli un poco alle esigenze della trama, non importa se hanno nomi e cognomi, tratti somatici e caratteriali che corrispondono a quelli di persone vere, realmente esistenti o esistite.”
Roberto Tancredi ha capito al volo a quale gioco intendevo giocare, e al gioco si è concesso, sempre più convinto e coinvolto con l’avanzare dei capitoli, provando lui per primo, io credo, un autentico, fanciullesco divertimento. E così, fin da subito, ha accettato di mettersi in gioco, di mettersi al servizio del nostro progetto: quello di scrivere una storia che poco aveva a che fare con la celebrazione o l’epica calcistica, quanto piuttosto il desiderio di narrare la vicenda di un personaggio in cui ogni lettore avrebbe potuto riconoscersi, un uomo normale, alle prese ogni giorno con leggende dello sport e con una macchina spietata, quella del calcio professionistico, più grande di lui e di chiunque altro. Soprattutto una persona con il suo carico di fragilità e di dubbi, primo fra tutti quello che scaturisce dalla madre di tutte le domande: “Sono bravo davvero? Oppure non lo sono e non lo sono mai stato? Può essere stato tutto soltanto un equivoco? Qualcuno finirà per accorgersene?”
Questo è in buona sostanza il filo conduttore che accompagna il protagonista e il lettore nel corso di venti partite e ventidue capitoli, di oltre cinquant’anni di storia italiana; in perfetta, desolante solitudine, come si addice all’ingrato ruolo del portiere, inseguendo col fiato corto una palla che rotola, correndo felice, frenetico oppure disperato, appresso alla vita.
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