«Cosa speri di trovare a Quiet Ridge?»
«Per adesso un posto dove stare. Un lavoro, magari.»
«Dal Messico a qui è un bel po’ di strada. Non c’erano altri posti in cui stabilirsi, nel mezzo?»
L’espressione di Dalia sembrò sconvolta da uno schiaffo invisibile. Dovette posare la ciotola e concentrarsi, quasi trovare una risposta fosse tutt’altro che scontato, mentre la luce del braciere acceso le riverberava sul volto, tinteggiandone i lineamenti tirati. «Niente per cui valesse la pena rimanere.»
Raggiunse l’essere più esterno e lo rivoltò, mossa dall’ingovernabile e raccapricciante curiosità di vederlo in faccia. Quando questi si rivelò, un mucchio di vermi brulicanti le risalì lesto l’avambraccio, arrampicandosi fino a conquistarle la spalla. Li scacciò con una mano, ma dal basso altri avevano intrapreso la stessa operazione partendo dalle gambe. Erano migliaia e avevano origine dai bulbi oculari vacanti di colei che era stata la tanto amata abuelita. Uno sopra l’altro zampettavano sulla pelle nuda di Dalia per poi insinuarsi dentro i vestiti, e malgrado ne respingesse a dozzine, sempre in numero maggiore ne comparivano dalla base.
Urlò a squarciagola, così forte che qualcosa nel cervello parve rompersi. Cominciò a grattare dall’interno, dunque prese a pulsare. Tonfi su tonfi, cupi e sordi, come se dentro la calotta cranica stesse marciando un esercito di fameliche creature dell’incubo.
Stavano venendo per lei?
Quando schiuse gli occhi incontrò il viso di Thomas illuminato dai colori del giorno. L’incubo era passato, ma sentiva ancora male alla gola, per non parlare delle ferite allo spirito. Eppure la vista dell’uomo la confortava. Che ne avesse trovato uno dal cuore puro?
«Ti ho sentito urlare mentre dormivi. Mi hai fatto prendere un colpo. Va tutto bene?»
Ancora stordita e con la bocca impastata dal sonno, Dalia rispose con un cenno della testa.
«Ho portato il bacon con delle uova. Tirati su.»
La ragazza si scrollò di dosso la coperta e abbandonò il giaciglio improvvisato per raggiungerlo al centro della stanza.
«Cos’era?» chiese lui.
«Cosa?»
«Il brutto sogno, voglio dire.»
Dalia non rispose. Si limitò a recuperare il piatto con la colazione, osservando l’uomo con curiosità. L’avrebbe delusa come avevano fatto tutti gli altri? L’avrebbe violentata, picchiata, calunniata, forse uccisa, o si sarebbe preso cura di lei? Certo era che le piaceva. Riccioli arruffati, fare pacato e confidente. Non era bello, ma trovava nei modi rassicuranti il fascino che non aveva mai avuto Feliciano. Ah, c’era un’altra cosa certa! Le uova con il bacon erano stramaledettamente saporite!
Tornati nel corridoio Dama Carlisa virò velocemente verso il piano superiore, tuttavia qualcosa aveva rapito l’attenzione di Dalia nella sezione discendente. In fondo alle scale dirette al seminterrato, infatti, si ergeva una porta di metallo fissata alla parete con bulloni spessi quanto un pugno, e non solo nella parte delle cerniere, bensì su tutto il perimetro. Una sorta di pendolo decentrato fungeva da maniglia, mentre a completare il quadro di stranezze ci pensavano una serie di ingranaggi d’ottone, incastrati l’un l’altro in un meccanismo che ricordava da vicino quello di un orologio da taschino.
«Che roba è quella?»
La Harris fermò la propria ascesa, accogliendo la domanda con un ghigno imbronciato. «Un tempo era la cantina. Adesso è dove Eugene tiene i propri cimeli. Non vuole che nessuno ci metta piede ed è molto intransigente su questo, ragion per cui da ora in poi cerca di limitare la tua curiosità.»
Immagino che per un condottiero di lunga data le reliquie accumulate superino di gran lunga lo spazio disponibile in un capanno di caccia. Armi dei sudisti? Magari dei pellerossa...
«Justine aveva paura di quella camera, per via della masche...» Prima che Colbert potesse finire la frase, un sonoro manrovescio gli schioccò sul muso.
«Bastardo di un insolente, come osi interrompermi con amenità simili?»
Lasciò che le mani si portassero sul libro senza opporre resistenza. Quando cominciò a sfogliarlo, una vibrazione risalì dalla spina dorsale arrivando fino a farle rizzare i peli della nuca. Non era ciò che leggeva a generarla, piuttosto ciò che stava sentendo. Niente! Dentro il sotterraneo non filtrava alcun rumore esterno, anche se la porta era rimasta spalancata. E ce ne doveva essere eccome, dato l’assedio in corso. Che i Mulligan avessero soprasseduto per permetterle di leggere in santa pace?
Tutto ciò è assurdo, pensò. Governata da una forza sovrannaturale. Sospesa nel tempo e nello spazio. Cos’altro poteva fare?
Vediamo che c’è scritto!
Ma non comprendeva. La lingua utilizzata era simile a quella arcaica dei testi reperiti in biblioteca. Anche qui c’erano note di traduzione in inglese e la calligrafia era simile, se non identica. Nella pagina centrale, gli appunti erano poi divisi in macrocategorie: Grande Tenebra, eclissi, immortalità, rituale di giovinezza.
Follia! Metti giù questo libro e torna di sopra, provò a comandarsi, riuscendo solo in parte nell’impresa. Arrivò infatti a posare il libro con successo, ma anziché tornare sui propri passi le mani si spostarono verso la maschera raffigurante la cosa più vicina a una parodia della letteratura fantastica che avesse mai visto. I denti aguzzi di un coccodrillo, sovrastati dalle ali scheletriche di un corvo.
Gaetano Cappello nasce ad Agrigento nel 1990. Cresciuto in una famiglia poco incline alla lettura, vede nascere il proprio legame con le storie dell’orrore per caso. Un’epifania che lo porta a divorare ogni romanzo del genere, da Stephen King a Lovecraft, finché non decide di dedicarsi alla scrittura egli stesso.
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