Assoggettati a una macchina produttiva che fa dell'ambizione e dell'ansia da riconoscimento il suo eterno motore la condizione esistenziale dell'uomo moderno appare mai come prima d'ora inautentica e priva di senso. Il bisogno di trovare un rimedio spinge il nostro essere ad attivarsi in direzioni apparentemente opposte: da una parte alla ricerca del piacere ammaliante dell'amore che consente di liberarci dal peso della nostra dimensione individuale annichilendo i sensi ed evocando dolci e rassicuranti vissuti infantili, dall'altra verso un percorso di inconcludente affermazione personale voluto da un Io ipertrofico affamato di apprezzamenti e di conferme del proprio valore.
Due condotte a prima vista antitetiche ma che attingono nutrimento dalle stesse radici: quelle del bisogno dell'altro, della impossibilità di farne a meno per nutrire la nostra autostima, per sentirci appagati e realizzati come individui.
Ma un'esistenza che miri ad espandersi e che voglia fare della gioia lo scopo supremo nella vita, non può restare per sempre aggrappata alle proprie certezze, ancorata ad un presente senza futuro dove a farla da padrone è solo il nostro bisogno inesauribile di conferme. Ed è proprio nella dialettica tra bisogno di stabilità e desiderio di cambiamento che entra in gioco la relazione con l'altro che lungi dal costituire la risposta alle mie insicurezze, mi offre un'opportunità di trascendenza che spezza le catene del bisogno e spiega le ali del desiderio.
“L’Arte
di cambiare. Da bisogno a desiderio dell’altro” di Enrico Valente
è un saggio incentrato sull’analisi del desiderio come problema
filosofico/antropologico e psicologico. Il desiderio è un anelito di
trascendenza, de-sidero significa infatti dal punto di vista
etimologico “essere lontani dalle stelle”. Il desiderio può
essere quindi il motore del cambiamento, della crescita personale e
anche della possibilità di trascendenza rispetto a una realtà
appiattita sull’immanenza e sulla materialità.
A mio avviso
la tesi fondamentale del libro di Valente è la differenza tra il
piacere individualista, materialista, in qualche modo “capitalista”
dell’autoaffermazione e quello irrazionale, estatico, totalizzante
dell’amore come fusione totale nell’Altro e “annullamento”
dell’individualità.
Con una
posizione razionale e condivisibile, Valente ritiene che sia
necessario trovare un punto di equilibrio tra queste due tipologie di
piacere. La coscienza interviene a impedire quella fusione totale,
quell’annullamento dell’individualità che può produrre uno
stato estatico temporaneo, ma ha come ombra proiettata quella di una
possibile dipendenza affettiva.
Il piacere
come autoaffermazione, potremmo dire come “accumulazione” è
invece interno a quella che Erich Fromm definisce modalità
esistenziale dell’avere, che possiamo considerare caratterizzante e
dominante la nostra epoca. Valente, sulla scia di Fromm, ritiene
questa modalità esistenziale “tossica” preferendole la modalità
dell’essere, tipica della tradizione orientale, nella quale al
centro ci sono “la persona e le sue qualità esistenziali” e il
processo continuo di cambiamento e miglioramento di se stessi.
Le tesi che
Valente riprende da Fromm sono dal punto di vista teorico, largamente
condivisibili. Tuttavia, non si può omettere di sottolineare come
quest’ultimo scrivesse nel Novecento e oggi la differenza tra
approccio occidentale e orientale sia molto più sfumata.
Le culture
orientali sono state interessate da quel processo che in antropologia
è definito “inculturazione”: di fatto, ormai le società
orientali funzionano secondo paradigmi occidentali, basti pensare al
modello cinese, che dietro la facciata comunista è capitalista e
iperliberista, o all’uso massiccio dei social network, tipico
prodotto della filosofia libertarian
e anarco-capitalista americana, da parte del terrorismo islamista. La
modalità dell’avere, a livello sociale, è ormai dominante.
La modalità
dell’essere, vicina a quella dell’artista a mio avviso nella
società contemporanea può essere ricercata solo a livello
individuale, costruendosi quella che Michel Foucault definiva
un’estetica dell’esistenza.
Valente
affronta, fra l’altro, il tema del dolore in autori come Leopardi e
Schopenauer, prendendo in qualche modo le distanze dal loro
pessimismo radicale, sempre con uno sguardo alle possibilità che
anche dal dolore si aprano prospettive di cambiamento. Dal punto di
vista filosofico, Valente segue la linea della critica radicale
all’idea cartesiana del cogito “io penso” secondo la linea di
Nietzsche, poi radicalizzata e messa a punto dagli autori di quella
che negli Usa viene definita French Theory: Ricoeur, Foucault,
Derrida, Lèvinas (l’unico a essere esplicitamente citato).
L’amore e
il desiderio di fusione implicito nel sesso sono secondo Valente,
spinte necessarie alla trascendenza e al cambiamento, ma trovano in
qualche modo dei limiti nella coscienza e nelle norme sociali, quelle
che Freud chiamava “Super-io”. L’autore ritiene che sia
necessario un bilanciamento tra la tendenza all’autoaffermazione e
quella alla fusione, e che l’amore, per generare un cambiamento e
un’evoluzione positiva dell’individuo, non debba nascere da un
bisogno (quindi da un’istanza materiale) ma da un de-siderio, un
anelito alla trascendenza.
Il lavoro di
Valente è ben documentato, mostrando un’ottima conoscenza degli
autori citati e analizzati. La lettura è consigliata a chi ha delle
buone conoscenze di base di filosofia e psicologia. Lo stile di
esposizione talora risulta eccessivamente lambiccato e complesso,
nonostante il testo non sia destinato esclusivamente ad addetti ai
lavori. Interessantissima è l’idea di analizzare il tema del
desiderio e del suo uso politico nella società affluenti e
capitalistiche, non sempre aggiornatissimi i riferimenti culturali
utilizzati: come ho sottolineato, è ad esempio assente un’analisi
del tema negli autori della French Theory, con l’eccezione di
Lévinas.
La tesi di
fondo del libro è invece condivisibile: è necessario trovare un
equilibrio tra la spinta individualizzante al piacere come
autoaffermazione, e quella estatica, ma rischiosa del piacere come
fusione totale nell’altro che può portare a pericolose dipendenze
affettive: “nel rapporto tra volontà di fusione e volontà di
affermazione personale si decide il nostro destino”. Sta a noi
trovare il punto di equilibrio che ci permette di mettere in moto
processi di cambiamento positivo.
L’arte
di cambiare. Dal bisogno al desiderio dell’altro,
nonostante alcuni limiti di tipo stilistico (la complessità e la
farraginosità a volte eccessive) e teorico (l’assenza del
riferimento dell’analisi del desiderio in autori più contemporanei
come Foucault e Deleuze) rimane un lavoro interessante e
condivisibile nella sua tesi fondamentale.








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