Respiro Readers
vi segnaliamo
la nuova uscita
del romanzo dell'autrice italiana Teresa Chiodo.
TITOLO: Incontri mancati
AUTRICE: Teresa Chiodo
CASA EDITRICE: Self Publishing
GENERE: Narrativa
PAGINE: 358
PREZZO EBOOK: 9.99
PREZZO CARTACEO: 12.90
DATA USCITA: Giugno 2020
Come seduce un attore? Come sa fare l’amore uno chef? Ginevra ha quarant’anni e un matrimonio solido, fino a che non commette un errore. Il suo lavoro consiste nel recensire alberghi di lusso, ma sta anche scrivendo un libro dal titolo Sull’influenza dei mestieri, in cui cataloga gli uomini che incontra per caso in base a un fantomatico potenziale seduttivo riconducibile al mestiere che svolgono. Quel saggio sarà la sua ossessione, la sua discesa agli inferi, un rischio folle oltre che un gioco perverso.
Ginevra ha un principio di non-relazione con un pubblicitario. Posa nuda per un fotografo che poi diventa suo confidente. Incontra un compositore di jingle che le ruba un’idea e se la vende a sua insaputa. Scopre come si muove un illusionista quando decide di conquistare il cuore di una donna... Sembrano delinearsi i presupposti di un disastro, ma l’esito si rivela opposto. Che differenza aveva fatto incontrare o no quegli uomini?
Non erano certo foto erotiche quelle che Ginevra si era fatta scattare in studio. Ma cosa c’è di più eccitante in una donna della più totale assenza, solo apparente, di un’inconfessabile premeditazione?
L’appuntamento con il fotografo era stato fissato per le due di pomeriggio di un mercoledì e Ginevra era arrivata puntuale dopo aver attraversato mezza Milano per raggiungere il suo studio nel quartiere Isola: una zona dal tessuto residenziale misto, stravolta da ambiziosi progetti di riqualificazione, fra movida notturna, uffici e laboratori. Il cielo di Milano quel giorno era rischiarato, insolitamente vago in una non demarcazione tipica da clima atlantico. Era passata sotto quello che chiamano il Bosco Verticale: due grattacieli dove umani, alberi e cani finalmente possono convivere. Da vicino in definitiva sono due torrioni, con qualche pianta sul balcone. Ginevra aveva pensato che i suoi due balconi di quattro metri quadrati ciascuno con otto piante di oleandri, tre plumbago, sette piante di edera, qualche ciuffo qua e là di asparagina per differenziare il verde, non erano niente male. Anche lei aveva avuto la stessa idea vent’anni fa.
Dopo aver svoltato in una via laterale, si era trovata davanti alla tastiera numerica del citofono al numero 8, senza sapere che pulsante premere. Il fotografo, Giulio Guadagnini, era stato reticente nel darle informazioni sulla sua reperibilità e non si era capito perché. A dispetto di quell’omertà ingiustificata, anziché fargli uno squillo aveva premuto tutti i pulsanti in sequenza. Qualcuno le aveva aperto. Si era inoltrata sperando di trovare un’indicazione. Sulla soglia di una delle porte che si affacciavano sul corridoio del piano rialzato c’era Giulio Guadagnini.
Parlare di musica voleva dire per lei camminare su un terreno scomodo; ma se non era sicura di comprendere l’oggettiva qualità estetica o la grammatica di una disciplina che non aveva mai fatto parte del suo progresso cognitivo, era invece persuasa di non potersi sottrarre al suo incanto. Ginevra non aveva quindi preferenze e per farla breve aveva risposto “scegli tu”.
Alle sue spalle si apriva un set ancora in allestimento: una sala quasi vuota con delle finestre oscurate da pannelli, un fondale di carta, varie aste trasversali fissate su pali, delle lampade con pinze al quarzo e alette paraluce, pannelli in polistirolo bianco e molto altro di non ben precisato per lei. Si erano salutati in modo sbrigativo, stringendosi la mano, giusto i convenevoli e due parole sul tempo, insolito per quel periodo dell’anno. Giulio sembrava più che altro già proiettato sul lavoro da fare.
“Metto su un po’ di musica. Hai preferenze?” aveva chiesto il fotografo.
Così Giulio aveva scelto un jazz facile, una musica non invasiva che univa e scaldava l’ambiente come un tappeto: ci si poteva camminare sopra.
Ginevra era rimasta in piedi vicino a una finestra, non proprio a suo agio, in attesa di indicazioni, sulle note di un jazz che non amava poi così tanto.
Giulio, in un incontro preparatorio, già le aveva spiegato che la sua idea era di realizzare dei ritratti che poi sarebbero finiti nella sua raccolta Donne fiere. Per darle un’idea le aveva mostrato un po’ di esempi che però non le erano piaciuti per niente. Sulle sue impressioni non si era espressa, dato che lui non glielo aveva chiesto. Più che ritratti le erano sembrate delle foto segnaletiche di ricercate: di profilo, di fronte, labbra serrate, orecchie scoperte; mancava solo che reggessero un cartello con la sequenza numerica di un codice a barre. A quelle donne aveva tolto tutto: trucco, gioielli, smalto dalle unghie, smalto dalla faccia, e non aveva regalato nulla, per esempio spianando qualche ruga o dando maggior compattezza all’incarnato con Photoshop, anzi aveva sottratto ancora, esaltando le imperfezioni. E poi, perché niente smalto sulle unghie? In un momento di indolenza non aveva avuto voglia di chiederglielo e non ne aveva voglia neanche adesso, quindi sarebbe rimasta con questo dubbio. Aveva accelerato l’invecchiamento cutaneo di quei visi calcando su alcune macchie dell’epidermide, rendendo più evidenti i capillari su naso e gote. Aveva accentuato la marcatura delle rughe anche nelle donne di trent’anni al punto da fargliene dimostrare almeno cinquanta. Per come la vedeva lei, nessuna di loro sarebbe stata “fiera” di far vedere in giro quelle foto. Il fotografo avrebbe sottoposto anche lei a un simile processo di ossidazione con tocchi rivelatori di uno sfascio corporale anzitempo? Facendo due conti: lei che di anni ne aveva quaranta e ne dimostrava trenta ne avrebbe acquisiti venti per arrivare a un totale di cinquanta.
Comunque l’idea di Giulio era quella di proporre un modello di “donna fiera”, consapevole e orgogliosa di ciò che è in netta contrapposizione rispetto a quello dominante in occidente: seduttrice, carrierista e vincente. E va bene, ma non convincerai mai nessuna a sentirsi fiera di certe macchie che significano una cosa soltanto: vecchiaia. Da contrastare con qualsiasi mezzo disponibile. Con tutta la fatica che una di quarant’anni fa per cercare di riposizionare l’ovale, di riempire gli zigomi, tendere il collo, poi trova questo che le smonta tutto, anzi ci mette del suo per aggravare un processo di deterioramento già ben avviato da solo. Lei, delle foto così, non le avrebbe mai mostrate a nessuno. Questo era poco ma sicuro.
Il fotografo l’aveva accompagnata in un camerino-guardaroba perché si potesse struccare e mettere qualcosa di più comodo. Nel frattempo Ginevra aveva ricevuto un sms da suo marito Fabrizio che era al corrente dei suoi programmi e le aveva scritto “sei ancora viva?”
Ginevra conosceva appena il fotografo e, per quanto ne sapesse, Guadagnini avrebbe potuto anche rivelarsi un pluriomicida seriale: catturava le sue prede-vittime nella rete del compiacimento e della blandizie con la promessa di rafforzare la loro autostima, gratificandole, e poi, non si sa come, le faceva fuori.
“Per ora sì, qui tutto bene”, aveva risposto a suo marito per tranquillizzarlo.
L’odore nella stanza era neutro, con una nota un po’ pungente di disinfettante, forse era questa la sua firma olfattiva. Si era chiesta se mai fossero stati lì quelli che chiamano i pulitori della scena del crimine. L’espressività di quei ritratti non la rassicurava; le luci sparate davano agli incarnati la durezza dei cadaveri esposti al neon di un obitorio. Dunque non le sembrava di percepire stranezze nel comportamento di Giulio, anche se si sa che le persone affette da un disturbo della personalità hanno dei comportamenti assolutamente normali, ma in realtà sono spietatamente manipolatori, sanno mentire con astuzia, sono difficili da riconoscere.
Mentre si preparava aveva fantasticato su un possibile titolo di giornale dopo il suo ritrovamento. Il fotografo avrebbe vampirizzato anche lei per poi trasformarla in mummia esangue? Lo avrebbe fatto con cautela meticolosa come aveva fatto con tutte le altre vittime?
“Va bene” aveva risposto Giulio in tono monocorde, senza aggiungere altro. Ma si vedeva che approvava: se una modella è senza vestiti, è neutra, è pura. L’ornamento, che può essere un vestito o un gioiello o un completo di pizzo, è lo strumento più volgare per sedurre.
Gli oggetti si percepivano allineati, disposti in modo da creare una simmetria voluta, come per cercare un perfezionismo estremo, di non vissuto. C’è chi dice che l’ossessione per l’ordine sia il riflesso esteriore di un qualcosa che dentro non va. Nell’ipotesi di avere a che fare con un sociopatico, le era sembrato che ogni indizio deponesse a favore di una sola diagnosi: nevrosi ossessiva. Era pur vero che anche lei aveva delle fisse, per esempio quella di tenere il tavolo in cristallo del suo soggiorno sempre sgombro da qualsiasi oggetto. Si poteva parlare quindi sintonia fra lei e il fotografo? Forse no. Quante volte le era capitato di convivere con serenità con un letto sfatto fino a sera? Questo la affrancava da ogni sospetto di soffrire di qualche disturbo compulsivo di natura analoga.
Dopo un’ora di pose ieratiche e innaturali, come quelle di una madonna ritratta in una pala d’altare, si sentiva tesa e anche un po’ stanca: aveva già capito che fare la modella non sarebbe mai stato il suo mestiere. La parte più difficile era stata quella di tenere le labbra serrate, perché a lei veniva naturale di schiuderle; allora le si formava uno spiraglio che faceva intravedere il luccichio dei denti. Poi avevano fatto una pausa e lui le aveva offerto una birra che avevano sorseggiato quasi in silenzio. Giulio non le sembrava un tipo da approfondimento. In questo si sbagliava. Dopo una ventina di minuti lui le aveva chiesto:
“Cosa avevi in mente di fare?”
“E se mi fotografassi nuda?” l’aveva detto così, senza riflettere, sotto la pressione dell’ultima possibilità come quando al supermercato si fa un acquisto d’impulso vicino alle casse.
Si riferiva alla seconda parte della sessione, quella libera da vincoli stilistici, il naturale compenso, un cambio merci per la sua disponibilità a posare per lui. Ginevra aveva aperto la valigia dei vestiti che si era portata e aveva tirato fuori alcuni capi di abbigliamento: un paio di completi intimi in pizzo, della lingerie, un vestito da giorno e uno da sera, scarpe e altri accessori. Mentre se li rigirava tra le mani accucciata per terra, a qualche metro di distanza, Giulio sistemava la sua Nikon, riposizionando l’attrezzatura. Aveva richiuso la valigia senza scegliere niente, poi si era voltata nel gesto di attorcigliarsi una ciocca di capelli sul pollice sinistro.
Solo le aveva chiesto se avesse previsto di far rientrare anche la sua “passerina” nell’inquadratura. L’aveva definita così, in un modo un po’ lezioso.
“Proviamo!” aveva risposto Ginevra.
Ginevra si era immaginata in un calendario al posto suo, magari dopo aver rimpolpato il reggiseno di un paio di taglie. Il suo sorriso sarebbe stato perfetto, era il suo punto forte. Ma per il resto? Quindi Giulio aveva cominciato a dirigerla e a incoraggiarla, specialmente su come tenere le mani, su come prendere la luce. Ginevra non aveva risposto su Betty Page. Terminata la prima sequenza di scatti le aveva fatto vedere i provini per commentare insieme. Forse una modella mediocre affiancata a un bravo fotografo avrebbe portato ugualmente a un buon risultato.
Quindi si era tolta i vestiti. Sentiva freddo. Era novembre, ma sotto le torce quasi incandescenti si sarebbe sicuramente scaldata. Insieme ai vestiti avrebbe voluto scrollarsi di dosso anche il suo costante bisogno di pianificare con anticipo ogni cosa, di controllare l’evoluzione del più piccolo dettaglio, per modellare sui suoi vecchi calchi anche un fatto nuovo, come poteva esserlo un incontro casuale o una deviazione non programmata in un viaggio. Avrebbe voluto lasciarsi andare per smentire almeno per una volta la sua prodigiosa instancabilità a resistere. Per lei non era mai il momento di possedere il bene che le offriva il presente. Proprio lì, in quel momento di stanchezza riparatrice avrebbe trovato riposo sotto il calore potente delle lampade, assecondato finalmente l’urgenza dell’eccitazione prima ancora che il suo desiderio di controllo, senza ignorare di sé stessa ciò che era fatto di carne e sangue.
Questa volta dal suo duro regime avrebbe rimosso quell’incongruenza scomoda che andava avanti da troppo tempo. Ecco il narcotico che l’avrebbe aiutata a dimenticare le occasioni mancate.
Ma non era forse anche questa una forma di controllo?
Distratta da incursioni di pensiero non pertinenti si era trovata a vagare con la mente fra immagini mentali di inutili memorie che avrebbe fatto meglio a rimuovere da tempo. Non si era nemmeno preoccupata di stabilizzare il tronco o di tirare un po’ in dentro la pancia. Gambe in alto, punta dei piedi sulla parete, muscoli dei polpacci contratti; aveva fatto ruotare le spalle rispetto all’asse dei fianchi, per evidenziare le curve, inarcandosi; sembrava una gatta. Intanto il fotografo aveva già fatto qualche scatto di prova.
Era nuda, morbida, ma il fotografo-serial killer l’aveva guardata solo distrattamente. Lui chissà quante ne aveva viste. Si era mostrato distaccato. La sua condotta fin lì era stata impeccabile, professionale. Giulio aveva preso nota dell’armonia delle sue forme, data, secondo i suoi calcoli, dalle proporzioni ideali di fianchi, punto vita e spalle. Il ventre non era perfettamente piatto, non lo era mai stato neanche prima delle gravidanze, ma aveva una lieve prominenza; i seni, non grandi, a seconda dell’angolazione, sembravano un po’ da adolescente; il pelo pubico, limitato a una striscia, era riccio e più scuro dei capelli biondi con riflessi color miele. Giulio aveva posizionato due ombrelli diffusori: il primo puntato direttamente su di lei, mentre il secondo posizionato angolarmente, per ammorbidire la luce.
“Muoviti liberamente” le aveva detto. Queste erano state le indicazioni.
“Nel modo che hai di muoverti mi ricordi Betty Page.”
In fondo cosa le importava? La sua fica non era forse come quella di tante altre? Per non rovinare la pienezza di un momento che doveva essere immune da lotta, di completo svenimento morale, non aveva sollevato questioni; poi avrebbe rimosso quel pensiero per non doverlo raccontare neanche a sé stessa, durante uno dei suoi interrogatori da aguzzino.
Giulio aveva sostituito il fondale nero con uno bianco. Ginevra aveva posato ancora con le mani sui fianchi, premute contro i seni e le dita allargate intorno, che facevano intravvedere i capezzoli turgidi, più per il freddo che altro, con degli occhiali da vista a montatura nera e un libro in mano su una sedia girevole classica in legno mentre faceva finta di leggere, con i capelli raccolti e tenuti con le mani sulla sommità del capo e di profilo, in ginocchio con le gambe parallele e con il peso del corpo appoggiato sulle punte dei piedi.
Improvvisamente era diventata propositiva con qualche idea sua e Giulio l’aveva assecondata senza sforzo; gli era piaciuta questa sua inaspettata proattività. Allo stesso tempo si preoccupava di togliere qualche brutta ombra. Quindi Ginevra aveva staccato il colletto a due punte a una camicia bianca e per allacciarselo intorno alla gola. Quel dettaglio le dava un’aria da collegiale. Le era venuto in mente un cortometraggio polacco che aveva visto durante uno dei suoi viaggi e non aveva mai dimenticato: un film a pupazzi animati un po’ sul genere underground ambientato in una città grigia e verticale svettante di palazzi stipati, strade popolate da persone senza testa che vivono e operano in una normalità goffa, maldestra, ridicola perché appunto non vedono e non sentono: si mettono alla guida per poi schiantarsi, vanno al cinema per non vedere nulla. Ci sono dei negozi dove si vendono cappelli. A chi? Il protagonista. Danny, l’unico con una testa, si innamora di una ragazza dalla quale viene respinto. La delusione per lui è insostenibile a tal punto da spingerlo a costruire una ghigliottina per tagliarsi la testa. Ora la ragazza può finalmente ricambiare il suo amore.
Quel nudo se lo immaginava dalla consistenza tattile della plastilina in un fermo immagine. Sarebbe rimasta lì per sempre come un cimelio esposto in un museo del cinema, ad assorbire la provocazione luminosa delle lampade per poi farla rifluire in un’inerzia euforica, in un godimento interno di una specie diversa dagli altri. La pressione morbida dei rigonfiamenti del telo di lino le dava un leggero sfregamento, quando si spostava anche solo di poco per favorire l’inquadratura. La sua pelle sotto le luci ormai aveva l’elasticità tiepida di un soufflé; lievitava, si sfogliava sotto l’effetto della cottura. Questa sensualità crescente sarebbe andata incontro alla solita disfatta come capita ai soufflé fuori dal forno o si sarebbe mantenuta finché i commensali non si fossero serviti il pasto? Aveva trovato strano che tutto questo risveglio le stesse mettendo sonno. Proprio a lei che soffriva di insonnia e faceva fatica ad addormentarsi anche quando era esausta. Giulio aveva sorriso davanti alle trasgressioni un po’ impacciate di una grazia non abbastanza sfrontata, bella per questo, in un singolare accento di abbandono, completamente sganciate da un profilo istituzionale di madre e moglie.
Ginevra si era chiesta che margine di sensualità potesse aver un corpo nudo senza testa.
Aveva chiesto a Giulio un telo bianco su cui distendersi, su un fianco, per poter socchiudere gli occhi e far ciondolare la testa riversa sotto l’orizzonte al punto da farla risultare fuori dall’inquadratura, come non ce l’avesse la testa, come fosse appena uscita da quel cortometraggio polacco, con le braccia molli e le gambe piegate e aperte in una sforbiciata, con il collo del piede arcuato come quello di una ballerina classica, in un momento di lascivo abbandono rispetto a qualunque proposito operativo costretto a una finalità. Respirando a fondo l’odore di quel lenzuolo bianco: un sudario dal vago sentore al sapone di Marsiglia, si concedeva la licenza di arrendersi a un destino senza testa come in quel film a pupazzi animati, sulle note di una melodia irlandese che sicuramente avrebbe riconosciuto.
A un certo punto a Ginevra era sembrato che Giulio stesse puntando l’obiettivo un po’ troppo in basso, mettendo a fuoco solo la parte più intima del suo corpo.
Erano quasi le sei e mezza e a quell’ora a casa i suoi figli avrebbero cominciato ad aspettarla. Quando si trattava di impegni riguardanti il suo lavoro aveva sempre fretta di tornare. Quella sera no. Forse perché si stava dedicando a qualcosa di non produttivo, inutile. Giulio avrebbe fatto una selezione parziale delle foto e l’avrebbe contattata per rivederle insieme prima di passare a una scelta definitiva.
Alla fine Giulio aveva scattato seicento foto che si era subito preoccupato di scaricare sul computer. Il lavoro era salvo. Ginevra si era rivestita e aveva raccolto tutte le sue cose. In quel momento si era chiesta se davvero era stata sua l’idea di spogliarsi oppure era stata la vittima di un plagio subdolo operato dal fotografo-operatore-carnefice, dall’aspetto rispettabile, premuroso e così preciso nel suo lavoro, che, oltre a essersi servito di tecniche psicologiche sofisticate per manipolarla, le aveva somministrato qualche sostanza chimica depersonalizzante. Giulio si era alzato per andare in bagno. Lei aveva approfittato di quel momento per scattare un paio di foto alle foto: una cosa che lui non le avrebbe mai permesso, se glielo avesse chiesto.
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