Respiro Readers
vi segnaliamo
l'uscita della riedizione
del romanzo dell'autrice italiana Nancy Ward.
TITOLO: Hidde. Riedizione 2020
AUTRICE: Nancy Ward
CASA EDITRICE: Self Publishing
GENERE: Romance
PREZZO EBOOK: 2.99
DATA USCITA: 2 Aprile 2020
Sophie Myers è la tipica ragazza sognatrice e inguaribile romantica. Giovane studentessa di Economia della NYU, le manca un ultimo step prima della laurea: svolgere un tirocinio lavorativo.
Assegnata all’azienda più famosa e misteriosa di New York, Sophie si renderà conto che la Technologies Industries è governata da un qualcuno di cui non si hanno foto, interviste o notizie. Un uomo che vive nell’ombra.
In azienda conoscerà Daniel Lance, il suo tutor: una persona tanto ammaliante coi suoi occhi verdi, quanto enigmatico coi suoi modi di fare verso la ragazza.
L’attrazione tra i due è inevitabile, ma ben presto Daniel metterà subito la situazione in chiaro: per continuare la loro conoscenza, tutto ciò che serve è la firma di un contratto.
Ma Sophie sarà disposta ad accettare questo presupposto?
Romanzo AUTOCONCLUSIVO.
Il suo "seguito" è REDEEM.
PROLOGO
18 gennaio 2010
Mi guardo allo specchio per l’ultima volta come studente universitario. Non sono più lo stesso di
una volta, non lo sarò mai più. Ho preso una scelta e adesso devo portarla avanti fino in fondo.
I miei genitori non sono molto d’accordo, e la stessa cosa vale per la mia attuale ragazza che si
trova proprio alle strette. L’altra sera, seduti sul divano a discutere, ha ripetuto più volte che una
relazione del genere, a queste condizioni, non sarebbe stata sana.
L’uomo nello specchio col gessato grigio scuro e la cravatta nera fa di me una persona più adulta
e più responsabile, peccato che in questo momento, dentro di me, sento che non è la verità e che si
tratta solo di apparenza.
Questa è la scelta che ho voluto fare e adesso ne prenderò le conseguenze.
«Tesoro, sono la mamma, esci?» chiede gentilmente mia madre, bussando alla porta di camera
mia.
«Certo, mamma, arrivo subito» mi ravvio i capelli con le mani quando, alla fine, mi decido a uscire
dalla mia camera, alla volta di una nuova vita.
«Eccomi» in piedi, deciso e sicuro di me davanti alla mia famiglia. Mi stavano tutti aspettando
trepidanti nel soggiorno con i visi ancora sconvolti.
«Sei sicuro di questa decisione? Capisco perfettamente il tuo desiderio di privacy, so che sei una
persona molto riservata però, dovresti pensarci. È dura secondo me portare avanti questa messa in
scena.» Il suo sguardo di disapprovazione per un momento mi fa tentennare.
«Voglio farlo. Voglio essere una persona alla pari e solo così potrò vivere tranquillamente» cerco
di convincerlo, ma il suo sguardo pare non abbia colto.
«Figliolo, secondo me l’eredità del nonno ti ha lasciato spiazzato. Non intendo prendere le redini
della Technologies, ma nemmeno vederti soffrire» spiega mio padre preoccupato, seduto sulla
poltrona di pelle nera.
«No, sono pronto. Ho studiato tutti questi anni e adesso voglio prendere la mia strada. Tu, papà,
hai preso la tua strada grazie all’architettura. Io vorrei avere i miei spazi ora» replico cercando di far
valere le mie idee.
«Non svelerai mai a nessuno la tua vera identità?» mia madre è la più pensierosa del gruppo, fa un
sospiro profondo e riprende «Non potrò più vederti?» si rattrista, immaginando il peggio.
«Penso di no e se lo farò userò dei contratti e mi affiderò a degli avvocati esperti in materia o
qualcosa di simile. Potrai vedermi, non ho detto di non essere più tuo figlio.» mi avvicino verso di lei
e l’abbraccio.
«Io spero solo che ti stia rendendo conto di quello che comporterà. Comunque, qualsiasi scelta
farai noi ti staremo accanto.» mio padre poggia una mano sulla mia spalla, orgoglioso.
«Grazie» sorrido. Sapere che la mia famiglia mi appoggia non mi farà sentire così solo.
E da quel giorno moltissime cose nella mia vita cambiarono. La ragazza di allora, Mary, mi lasciò
dopo pochi mesi. Mi disse che non poteva andare avanti così, che in un certo qual modo gli dava
fastidio il mio comportamento scostante in ufficio e dolce e amoroso fuori. Eppure, a me sembrava
di essere sempre lo stesso, di non esser cambiato nemmeno di una virgola. Ho fatto firmare l’accordo
alle persone più vicine a me in ufficio, tranne i miei genitori e David, un mio carissimo amico, Loro
non diranno mai una parola alla stampa.
Non posso immaginare la mia vita ripresa attimo per attimo ogni giorno, giornalisti che vogliono
mie interviste su come ho sviluppato il mio impero, quando l’ho solamente ereditato e adesso lo sto
semplicemente portando avanti; fotografi che mi inquadrano da lontano, che indagano in modo
scrupoloso la mia vita sentimentale, rivelando ai vari tabloid informazioni magari non vere, creando
scandali e buttando fango sulla mia persona.
Ho fatto la mia scelta e ora la mia vita va avanti fra una verità e una bugia.
CAPITOLO 1
È passato un mese da quando io e Chris ci siamo lasciati.
Non nascondo che se vedessi in giro la ragazza con cui mi ha tradito, cambierei strada.
Lo avrà fatto di proposito sicuramente, eppure eravamo compagne di scuola un tempo. Perché
volermi rovinare una relazione così?
Penso che a volte le persone non si sentano soddisfatte della vita che fanno: amano ripercuotere le
loro insoddisfazioni su coloro che non c’entrano nulla, sulle scelte sbagliate che hanno fatto.
Non sono arrivata al punto di odiarla, anzi, mi ha aperto di più gli occhi su Chris. È crollato ai suoi
piedi subito da quello che ho capito, non ha pensato un secondo a me.
Scuoto la testa cercando di togliermi il pensiero dalla testa: loro che si spogliano, si baciano e si
appartengono.
Spazzolo i capelli con le mani, così da aggiustarli un pochino e, notando una ciocca ribelle, la
infilo dietro l’orecchio. Prendo la mia borsa dove ripongo sempre i miei libri e quaderni per
l’università, ed esco di casa. A volte mi chiedo come mai non ci sia rimasta così male dinanzi al
tradimento del mio ormai ex fidanzato. Quando l’ho scoperto sono rimasta sbigottita, ma non così
tanto da sentirmi ferita; più che altro mi sono sentita inutile e allo stesso tempo un’incapace. Credo
che sia la doppia faccia della medaglia: c’è chi sta molto male e chi cade nel silenzio, come me. La
mia migliore amica Jen sostiene che lui fosse quello sbagliato. Effettivamente non le era mai piaciuto.
Avrei dovuto darle ascolto prima.
“Basta rimuginare sul passato, Sophie” ripeto fra me e me nella mia testa.
Scendendo le scale, automaticamente, guardo nella buca delle lettere sperando che i miei genitori
abbiano scritto una lettera dalla Francia: purtroppo le mie speranze sono vane. La nostra
corrispondenza si basa sulla carta, quindi dall’Europa agli Stati Uniti ci vogliono un paio di settimane,
prima dell’arrivo della corrispondenza. Gli strumenti moderni non sono molto di gradimento ai miei,
preferiscono le vecchie usanze, e l’idea, se devo proprio dirlo, non dispiace nemmeno a me.
Prendo il primo autobus che passa nella zona e in meno di dieci minuti sono davanti all’università.
Ricordo ancora quando mi sono iscritta qui: non conoscevo nessuno, ma per fortuna avevo l’inglese
dalla mia parte essendo sempre stata portata per questa lingua. Una ragazza dai capelli color miele,
jeans chiaro aderente e una camicia color blu notte mi sta aspettando davanti al grande portone della
NYU, guardandomi con tono di disapprovazione. Corro verso Jen e il suo sguardo non cambia:
quando si comporta così mi viene da ridere, è troppo buffa. Le do un bacio sulla guancia ma non si
muove per ricambiare.
«Sei in ritardo» dice con tono ammonitore.
«Lo so, mi dispiace, non l’ho fatto apposta, ho fatto una doccia più lunga del previsto» le sorrido.
“Attenta, lei ti conosce bene, sa quando menti.”
«Una doccia più lunga del previsto? E cosa hai fatto? Fissato il pavimento in cerca d’ispirazione?
Hai visto un principe azzurro nell’acqua?» replica sarcastica.
«No, niente di tutto ciò, ero solo pensierosa. È già passato un mese da quella brutta esperienza e...»
non riesco a finire la frase che mi interrompe.
«E cosa, Sophie? Quello stupido è solamente da picchiare, ma sono una donna e preferisco
mantenere la mia eleganza» dice voltandosi da un’altra parte e gettandosi i capelli dietro le spalle.
«Hai ragione» l’appoggio, anche se a volte penso che esageri.
Il bello della nostra amicizia è proprio questo: siamo come l’acqua e il fuoco. Diverse, ma sempre
pronte per l’altra.
A passo svelto cominciamo a incamminarci nel corridoio, alla ricerca della classe di Finanza.
«Ti ricordi che oggi fanno gli smistamenti per i tirocini in azienda? Spero che ci mettano nella
stessa, almeno conosco già qualcuno» dice ridacchiando come una bambina. Passa dall’essere una
donna dura e severa a una bimba piccola: è sempre stata così, fin da quando l’ho conosciuta. Fu lei
ad avvicinarsi a me il primo giorno di università. Aveva un sorriso largo tutta la faccia nel dirmi che
saremmo andate subito d’accordo perché le trasmettevo positività; le risi in faccia. Ebbe uno strano
modo di approcciarsi a me, però alla fine è stato un bene: senza di lei a quest’ora mi sentirei sola,
abbandonata a me stessa.
«Lo spero anche io, per la pausa pranzo almeno avrei qualcuno con cui spettegolare» dico mentre
entriamo in aula.
Tre professori disposti in una sola cattedra danno istruzioni agli alunni presenti: ci siamo perse la
prima parte in cui spiegavano cosa avremmo dovuto fare e come presentarci all’azienda, quindi
sicuramente cose noiose che ci avrebbero fatto dormire ancora di più. Prendiamo posto velocemente,
quando, a un tratto, Jen viene subito richiamata da uno dei tre docenti.
«Signorina Waire, ci raggiunga che le diamo la sua busta.»
La Jen immobilizzata di cinque secondi fa sta scendendo i gradini, facendo oscillare i suoi fianchi
per attirare l’attenzione dei ragazzi. Si ferma davanti all’insegnante con aria di sfida, mentre le viene
consegnata una enorme busta bianca con dei fogli all’interno. Speriamo ci sia qualche istruzione
dentro visto che la prima parte sulla spiegazione l’abbiamo persa.
«Allora, cosa c’è dentro?» chiedo incuriosita.
Con cautela, tira fuori un blocco di fogli, poggiandoli sul banco e cercando di non farli cadere per
non fare la figura dell’imbranata.
«Contiene tante scartoffie su cui dobbiamo scrivere ciò che facciamo: uno è da consegnare al
nostro datore di lavoro, in altri in si parla dell’azienda e del nostro ruolo lì dentro. Insomma, una
infarinatura su tutto prima di partire» mi guarda scocciata.
Leggo i documenti e tiro un sospiro di sollievo. Bene, non sarà difficile dopotutto. Nel frattempo,
vengono consegnate altre buste fino a quando non viene chiamato anche il mio nome.
«Signorina Myers» dice un professore con la testa pelata, alzando lo sguardo verso la platea.
Li raggiungo cercando di non far trapelare la mia agitazione, raccolgo la mia busta e mi dirigo
fuori dall’aula dove mi aspetta Jen.
«Dove ti hanno piazzata?» mi chiede trepidante.
«Alla Technologies Industries Howard Holdings & Co» dico tutto d’un fiato. «Cavolo, è un nome
lunghissimo, non potevano farlo più breve?» leggo ripetutamente il nome cercando di memorizzarlo.
«No, io dovrò lavorare in un’assicurazione. Almeno tu sei capitata in un’azienda molto più grande.
In futuro potresti farti un nome lì dentro e addirittura vedere di persona il proprietario di tutto ciò» i
suoi occhi si illuminano mentre un filmino mentale sulla mia carriera parte a nastro nella sua testa.
«Sarà una persona conosciuta all’interno dell’azienda. Dopotutto detiene un impero, non può
nascondersi. Ha un’impresa enorme, produce gadget di tutti i tipi e soprattutto all’avanguardia. Come
può il mondo non conoscerlo?» le domando sbigottita.
La mia migliore amica sa sempre tutto di tutti, la sua curiosità non conosce limiti. Il gossip è il suo
pane quotidiano. È peggio dei paparazzi.
«Ma allora tu vivi sulle nuvole!» agita le mani in segno di disapprovazione. «Dovresti leggere
qualche rivista! Il capo della Technologies Industries non si è mai mostrato alle telecamere, nemmeno
per una semplice fotografia! Non si conosce bene il motivo, ma di sicuro vuole tenere la sua vita
privata lontana dalla televisione e dagli obiettivi dei paparazzi» mi spiega.
Addirittura esiste una persona così.
«Ah, ho capito. Intanto incomincio a fare il tirocinio: e poi, giungendo a una conclusione, non
credo lo conoscerò di persona» scrollo le spalle.
Lei fa una smorfia e sorridendo ci dirigiamo verso l’uscita dell’università. Dopo esserci salutate
riesco, con molta fortuna, a beccare un autobus che sta giusto per ripartire, facendo una corsa e
salendo a bordo.
A volte le mie doti da corridore mi stupiscono.
Guardo in giro nell’autobus se c’è un posto libero ma niente. All’ora di punta è sempre tutto pieno.
Resto in piedi, aspettando la mia fermata, e, finalmente, dopo alcune tappe, posso scendere pure io,
per dirigermi verso casa. Appena apro la porta, un profumino buono e invitante pervade i miei sensi:
fuori faceva abbastanza freddino nonostante il meteo di ieri avesse predetto alte temperature. Per la
cronaca, io odio il freddo, preferisco molto di più le giornate calde d’estate. Butto la borsa sul divano
e corro in camera a infilarmi il pigiama e i calzini comodi antiscivolo. La curiosità in questo momento
mi sta mangiando viva. Perché il proprietario di un impero tecnologico non vuole mostrarsi in
pubblico? La cosa mi fa riflettere, così prendo dalla borsa la busta bianca, mentre attendo la lenta
accensione del mio computer.
Giusto per fare due ricerche sull’azienda e saperne di più su questa persona.
Digito “Technologies Industries” e subito compare come preferenza il nome per intero. Ci clicco
sopra e nella schermata di Google si susseguono numerosi articoli di giornale in cui si parla del
famoso, ma nascosto, proprietario della multinazionale. Apro un articolo recente che mi incuriosisce
alquanto per il titolo, datato 3 marzo 2014:
Alcuni dicono che sia sposato con figli, altri dicono scapolo rubacuori. Qual è mai la verità che
si cela dietro questa enorme azienda? Chi è costui che la governa? Potremmo mai associare un volto
e un corpo a Mr. Howard?
Almeno si conosce il cognome di questo boss in incognito. Pensare di andare a lavorare in
un’azienda del genere mi elettrizza e mi preoccupa allo stesso tempo.
Provo ad andare su Google Immagini, giusto per vedere se si ha idea, almeno, di chi potrebbe
essere, se ci sono stati degli scatti rubati, delle supposizioni... Ma niente, delusione totale. Solo foto
dell’azienda vista dall’esterno, delle targhette d’ufficio, ma nulla che davvero possa far passare questo
punto interrogativo nella mia testa. Chiudo tutto e abbastanza insoddisfatta lascio andare un sospiro.
Chissà cosa ha spinto Mr. Howard ad agire in questo modo.
A un tratto sento la mia pancia brontolare, che mi fa tornare alla realtà dei fatti.
Emergenza, emergenza. Fame. Fame.
Vado verso la cucina, così da potermi preparare qualcosa di buono.
Neanche il tempo di mettermi il secondo boccone in bocca che sento squillare il cellulare in camera.
Dopo aver fatto un chiuso gli occhi e aver richiamato tutta la pazienza interiore, mi trascino in camera e
afferro velocemente il telefono. Odio far aspettare la gente e far squillare il telefono così tanto, a un certo
punto diventa pure fastidioso.
«Pronto?»
«Sophie, oggi verrai qui, vero?» È Lauren, il mio datore di lavoro. Sembra disperata dalla voce.
«Certo» rispondo cercando di tranquillizzarla.
«Oh, meno male, pensavo che oggi cominciasse il tirocinio. Il solo pensare di non averti qui mi
rattrista» dice sconsolata e sospirando sonoramente.
«Non ti preoccupare, tre settimane e poi torno. Non è poi così tanto, non è nemmeno un mese»
rispondo.
«Hai ragione» afferma dispiaciuta, come se si fosse preoccupata troppo presto. «Ci vediamo oggi alle
quattro allora, a dopo» chiude la chiamata.
Lancio il cellulare sul letto e fuggo di nuovo in cucina, per finire di gustare il mio piatto di pasta:
squisito.
Benvenuti da Book Beauty è la scritta che si legge appena ci si trova davanti alla porta della libreria di
Lauren. «La bellezza dei libri» dice sempre lei. Oggigiorno però non tutti sanno apprezzare un buon libro.
Molti si soffermano sui film o sulle serie televisive e non sanno che molti di quelli sono ispirati a fatti
trascritti su carta, e che molte volte sono totalmente diversi dalla pellicola.
«Buongiorno» mi rivolgo a lei con uno dei miei migliori sorrisi. Alla fin fine dispiace anche a me non
poter lavorare qui per i prossimi giorni: amo tutto ciò che riguarda la letteratura. Ho una piccola biblioteca
a casa che spazia fra vari generi: dai classici inglesi, alle storie d’amore… soprattutto le storie d’amore.
Amo perdermi nelle pagine dei libri, far viaggiare la mia mente in posti lontani, essere per una volta la
protagonista di un racconto e non più Sophie. È un modo per estraniarmi dal mondo circostante.
«Tornerai da me dopo il tirocinio?» Lauren si volta verso di me preoccupata, poggiando i una marea
di tomi su uno scaffale. Questo discorso la sta ormai affliggendo, somiglia quasi a un cane con la paura
di essere abbandonato sulla strada.
No, io non abbandono nessuno.
«Ovvio, amo questo posto. Come potrei mai lasciarti da sola?» le rispondo in modo dolce.
«Mi chiedo ancora perché tu abbia scelto di studiare Economia al posto di Letteratura» dice mentre
apre con un coltellino degli scatoloni arrivati stamattina contenenti altri libri nuovi.
«Perché, come è vero che amo la letteratura, amo anche i numeri. È più forte di me.» Sono velocissima
coi calcoli, sono sempre stata portata per la matematica e ho voluto sfruttare questo potenziale per la
facoltà di Economia.
«Sei contenta di cominciare il tirocinio domani?» Lauren solleva lo sguardo sorridendomi dolcemente.
È la tipica sognatrice: ha più o meno trent’anni, il viso incorniciato da lunghi capelli neri e occhi grigi. A
differenza mia, non è molto alta, però ha un fisico che fa paura: snella, tanto quanto io sono “formosa nei
punti giusti”. È davvero una donna dolcissima e speciale, l’ammiro molto.
«Un po’. Vado a lavorare per la Technologies Industries: conosci?» I suoi occhi si spalancano di botto,
facendomi capire al volo la risposta.
«Davvero?» chiede allibita.
«Sì.» ora sono più allibita di lei.
Cosa c’è di strano in questa azienda? Girano i fantasmi oltre alle persone in incognito?
«Non pensavo che dentro quell’azienda facessero addirittura dei tirocini. Da anni si prova a capire chi
comandi tutta quella macchina di impresa, ma non se ne viene mai a capo. Magari prova a fare tu la
Sherlock Holmes!» mi incita, saltellando verso di me.
«Potrebbero insospettirsi e sospendere il mio tirocinio. Non voglio che accada, quindi rimando le
indagini a un’altra volta» ridacchio. Sarebbe divertente però.
Lei mi sbuffa, fingendo di essere arrabbiata, ma dopo poco scoppia in una fragorosa risata.
Probabilmente mi starà immaginando vestita come Sherlock Holmes.
Ah, a cosa portano tutti questi libri.
CAPITOLO 2
Dopo essermi trascinata a casa, riaccendendo il computer, ritrovandomi davanti l’ultima pagina
web visitata: la Technologies Industries.
Al di là del fatto di aver consultato vari siti in cerca di qualche informazione in più sul conto
dell’azienda, sono giunta alla conclusione che questo proprietario faccia bene a rimanere dietro le
quinte: troppi ficcanaso in giro.
Me compresa.
Mi alzo dal letto con fatica e prima di andare a dormire mi accingo a leggere tutte le direttive da
seguire durante questo percorso lavorativo.
Prendo la busta e tiro fuori tutti i documenti: finalmente posso leggere attentamente tutte le
indicazioni. Una strana sensazione di ansia si espande dentro di me:
1. Essere puntuali. Dovrò mettere la sveglia presto.
2. Dare il meglio di sé. Questo sicuramente.
3. Cercare di essere risoluti, applicare le teorie e le operazioni imparate durante l’anno.
4. Serietà.
5. Non intralciare il lavoro altrui.
6. Essere sempre disponibili.
7. ...
Di seguito sono riportate le annotazioni che dobbiamo prendere giornata per giornata, specificando
tutte le attività svolte.
Infilo nuovamente i fogli nella busta riponendo il tutto nella borsa in modo da non perderli. Poso
lo sguardo nuovamente sul display del computer. Andrò a lavorare lì, chi l’avrebbe mai detto.
Un suono strano mi fa guardare in giro, cercando di capire cosa sia questo ronzio. Quando vedo la
borsa cadere, mi ricordo di aver lasciato il telefono in modalità vibrazione.
Afferro in fretta e furia, pensando a chi possa essere a quest’ora.
Sul display compare Jen, il che significa guai in vista.
«Pronto, Jen?» la anticipo.
«Pensavi che me ne fossi dimenticata» dice allegra.
«No, hai aspettato questo giorno da quando abbiamo cominciato l’università» rido.
Ti sei ricordata solo ora del tuo compleanno, vergognati.
Reprimo quel pensiero, cercando di concentrarmi su ciò che ha da dirmi la mia migliore amica.
«Ride bene chi ride ultimo! Volevo farti una sorpresa. Hai compiuto ventuno anni oggi, bella
bambina! Sai cosa significa negli Stati Uniti avere ventuno anni?» dice aspettando una mia pronta
risposta.
«Sì, possono bere alcolici» dico sbuffando. Non sono un’amante dell’alcool.
«Bella mia, non hai mai bevuto. Dai almeno una volta provaci, ok? Per favore! Non dico che ti
devi ubriacare, ma almeno senti com’è!» è esasperata.
«Ok, va bene, ma solo una volta» replico severa sospirando.
«Bene, ci vediamo stasera alle 8.00 da Wild!» squittisce velocemente in preda all’euforia.
«Va ben...» ha attaccato prima del previsto senza ascoltare la mia risposta. Jen è un uragano e a
volte non si può fare niente, bisogna accettarla così com’è senza fermarla, anche perché è impossibile
farlo vista la sua testardaggine.
Guardo l’orologio e noto, mio malgrado, che manca un’ora all’incontro previsto. Faccio una doccia
più veloce del solito, prendo un vestito color pesca con un incrocio dietro la schiena, lasciandola
leggermente scoperta, poi un tacco dieci, giusto per essere un pochino più alta e un filo di rossetto.
Sciolgo i capelli dalla coda che avevo fatto stamattina, pettinandoli in modo da averli in ordine.
Pesco una pochette color panna dal mio armadio ed esco in fretta di casa con il mio cappotto nero
preferito che indosso solo per gli eventi speciali.
Appena uscita dal portone, il vento innalza i miei capelli e nel frattempo, col ticchettio dei miei
tacchi nelle orecchie, mi dirigo verso il Wild, un locale pub-discoteca che si trova dopo cinque traverse
rispetto a casa mia.
Da lontano si comincia a intravedere la fila per entrare e per fortuna Jen è già in coda.
La raggiungo, facendomi spazio tra alcuni ragazzi, baciandole le guance alternativamente, e, a
differenza di stamattina, questa volta ricambia: ciò significa che non sono in ritardo.
Brava Sophie!
«Pronta a scatenarti?» mi pizzica cla pancia con un dito.
«Certo, tu non mi lasciare mai, mi raccomando» mi sento davvero una stupida in questo momento,
visto che, per via del freddo, ciondolo a destra e a sinistra per riscaldarmi.
Finalmente il buttafuori ci fa passare ed entriamo in un posto caotico dove ci sono luci di tanti
colori diversi che si alternano. Ci fermiamo a un tavolo, quando Jen dice di poggiare la giacca alla
gruccia e di tenere la pochette sempre con me.
Il suo obiettivo è il piano bar. Andiamo verso il bancone facendoci spazio fra le persone
ammassate, e sedendoci su uno sgabello.
«Tu cosa prendi?» mi urla Jen in un orecchio.
«Quello che prendi tu!» le urlo mettendo due mani vicino la bocca per farmi sentire meglio.
«Va bene, è un po’ forte, ma ti piacerà.» urla ancora.
Bene, sembra di parlare con mia nonna che non ci sente.
Con gesti da giocoliere il barman ci serve due cocktail colorati: uno rosa e uno arancione. Io
osservo la scena con stupore, come fanno a essere così precisi e a non rompere nulla?
«Auguri!» urla Jen alzando il bicchiere in aria, per poi fare un brindisi. Faccio un sorsetto ed è
davvero buono, sento la fragola che si mischia con l’arancia. Jen credo sia una spugna, lo ha quasi
già finito mentre io sono ancora a metà.
A un tratto mi prende per mano mentre finisce di bere e lascia il bicchiere di plastica sul bancone.
Mi trascina in pista, ritrovandomi a ballare, a muovermi, lasciando che il mio corpo venga
trascinato dalla musica. Per lei è tutto così naturale, io invece mi sento goffa e stupida. È la prima
volta che frequento un locale di questo tipo. Decido di finire il mio cocktail e di lasciare il bicchiere
vuoto sul banco, successivamente Jen mi trascina nuovamente nella mischia.
La mia amica è quasi già andata, sorride sempre e tiene le braccia in alto, sculetta a destra e a
sinistra, attraendo un tipo alto e biondo che la domina un pochino. Lei lo guarda con quel sorriso
ebete e gli mette le mani al collo come se fosse tutto naturale.
Vedere quella scena mi fa scoppiare a ridere. Un risata che non ha sentito nessuno. Osservandoli
meglio, decido di stare un po’ per conto mio e di lasciarmi andare da sola al ritmo ripetitivo e tagliente
della musica da discoteca.
Tutti questi suoni e queste luci cominciano ad avere un senso, facendomi sentire libera di fare ciò
che voglio. Mi tocco i capelli alzandoli di poco per poi farli ricadere cercando allo stesso tempo di
muovere il bacino come fa Jen. La mia mente per un attimo non pensa più, ci siamo solo io, la musica
e il mio corpo.
Guardo i due piccioncini e noto con stupore che il tipo sconosciuto sta rimorchiando la mia amica
in modo molto “espansivo”, così decido di farmi spazio fra la gente e di bere altro, godendomi il mio
compleanno fresco fresco.
Devo provare qualcosa da sola. Diavolo, ho ventuno anni adesso.
«Cosa desideri?» mi chiede il barista.
E adesso cosa gli dico? Mi guardo in giro e vedo che un ragazzo tiene in mano un bicchierino
molto piccolo, andrà bene quello, un altro bicchierone come quello servitomi prima potrebbe farmi
male.
«Dammi quello che ha preso quel ragazzo!» gli dico indicando.
«Ah, uno shot! Arriva subito» e con fare da giocoliere mi viene preparato ciò che ho chiesto.
Mi viene servito un bicchierino e senza nemmeno ripeterlo due volte, bevo tutto d’un sorso. Ha
versato di nuovo la fragola qui dentro, è buonissimo, peccato che ce ne fosse poco.
«Un altro shot!» chiedo urlante al barista.
Perché accontentarmi solo di uno? Al diavolo, per una volta posso farlo.
Ed ecco che un altro bicchierino servito. Wow aveva ragione Jen, è proprio buono e uno tira l’altro!
La mia vista è un po’ annebbiata, ma penso che sia anche per la stanchezza... Alla fine ho anche
lavorato oggi.
Mi alzo dallo sgabello e cerco di dirigermi verso la pista per cercare di recuperare la mia migliore
amica, ma riesco a stare ben poco in piedi, così decido di raggiungerla e le urlo che voglio andarmene.
Non devo dimenticarmi di star parlando con mia nonna che non ci sente.
Lei sembra che capisca poco perché mi sorride e fa sì con la testa, urlandomi ripetutamente gli
auguri. Le sorrido pure io, cercando di non riderle in faccia. Lei torna a ballare col suo nuovo
ammiratore: sembra stia sulle nuvole, un mondo totalmente a parte.
Raggiungo barcollando il tavolo, raccolgo il cappotto e mentre lo indosso, mi dirigo fuori dal
locale. È tutto così silenzioso qui fuori. Le orecchie cominciano a fischiarmi e nella mia testa vige il
casino.
Che brutta sensazione.
Mi incammino verso casa, notando di non riuscire a stare bene in equilibrio, così mi tolgo i tacchi
e comincio a camminare scalza.
Che sollievo. Non metterò mai più i tacchi per andare a ballare. Mai più.
Non ho mai camminato senza scarpe per strada, e la cosa non mi crea imbarazzo, anzi, rido. Forse
sto anche ridendo troppo per le sole cose che penso… È normale? Non credo.
«Ehi! Bella bimba! Dove stai andando?» sento urlare da dietro.
Che spavento.
Voltatandomi indietro, vedo che ci sono degli uomini, ubriachi anche loro, che stanno dietro di
me. Faccio finta di non averli visti, sperando in cuor mio che non si stiano riferendo a me. Accelero
il passo, anche se sbando molto di più a destra e a sinistra: sono assalita dalla paura e il mio cuore
comincia a farsi sentire sempre più forte.
«Bella bimba, non correre, stiamo arrivando, vuoi vedere chi arriva prima?» urlano ancora. I
brividi percorrono tutto il mio corpo, il marciapiede pare addirittura più freddo.
Sono quasi arrivata a casa, non li devo ascoltare.
Due traverse ancora e poi sono al sicuro.
Ho il respiro affaticato e i giramenti di testa non aiutano.
All’improvviso mi sento prendere saldamente per una spalla.
«Siamo arrivati!» dice un tizio con la barba ubriaco marcio. L’odore di alcol si sente anche a
distanza ed è ripugnante.
Mi volto verso un gruppo di individui che non distinguo bene, ma noto i loro visi torvi.
Cominciano a spintonarmi forte, cercando di farmi perdere l’equilibro e confondendomi ancora di
più: provo a ribellarmi, li respingo, ma loro sono in numero superiore e, senza nemmeno che me ne
accorga, tentano di farmi entrare in un vicoletto.
La paura dentro di me sta crescendo sempre di più e mi sento persa, stanca, non ho più il controllo
sul mio corpo…
La testa gira sempre di più e quando uno dei tizi mi sta per dare un calcio viene spinto via da
qualcuno che non riesco a vedere bene. Indossa una giacca nera, lunghi pantaloni neri… Si sta facendo
tutto così buio davanti ai miei occhi. Spinge via prima uno, poi un altro, poi un altro ancora e
addirittura credo che a uno abbia sferrato un pugno.
La testa sta continuando a girare e non riesco più a vedere bene cosa sta accadendo attorno a me.
Non distinguo bene le sue labbra oppure gli occhi però lo vedo avvicinarsi a me, mentre le palpebre
mi si stanno chiudendo, con il cuore ancora in balia della paura, dei battiti forti e veloci.
Nascondo il mio viso nel giaccone, perché io non so cosa lui possa volere da me e le ultime parole
che sento sono: «Non ti voglio fare niente, sono qui per aiutarti». A quelle parole rassicuranti, mi
lascio andare all’oscurità, al nulla più totale perdendo i sensi.
Nessun commento:
Posta un commento