Respiro Readers
vi segnalo il primo romanzo
di un'autrice italiana emergente.
TITOLO: Le meravigliose avventure di un'insegnante precaria
AUTRICE: Anna Maria Arvia
GENERE: Autobiografico/Umoristico/Scuola
CASA EDITRICE: Self Publishing
PAGINE: 155
DATA USCITA : 18 Luglio 2018
In questo libro, l'autrice racconta la sua personale esperienza da precaria della scuola, che comincia dallo smarrimento che ha seguito la laurea, prosegue con la surreale esperienza della scuola di specializzazione per diventare insegnante e si concentra sulle supplenze vere e proprie che la porteranno, dopo un lungo percorso e svariate esperienze, fino all'approdo al sospirato ruolo.
Durante questo itinerario, ha vagato di scuola in scuola, aggirandosi per remoti e talvolta sconosciuti paesi, incontrando personaggi originali e colleghi che contribuiranno alla sua crescita, si misurerà con alunni problematici e imparerà a mettere in atto strategie che permetteranno di modellare in modo migliorativo situazioni problematiche.
Largo spazio è dato anche ai rapporti umani che si sono creati con i diversi ragazzi, in particolare quelli disabili, con i quali è fondamentale l’aggancio affettivo per intervenire in modo efficace.
Tutta la narrazione è piuttosto fedele ai fatti come si sono verificati, anche se spesso sono messi in rilievo gli aspetti comici di certi avvenimenti. Anche i nomi e le località che compaiono nel testo sono di fantasia, spesso mantenendo un'affinità sonora o lessicale, pur trasfigurata, con quelli reali.
Durante questo itinerario, ha vagato di scuola in scuola, aggirandosi per remoti e talvolta sconosciuti paesi, incontrando personaggi originali e colleghi che contribuiranno alla sua crescita, si misurerà con alunni problematici e imparerà a mettere in atto strategie che permetteranno di modellare in modo migliorativo situazioni problematiche.
Largo spazio è dato anche ai rapporti umani che si sono creati con i diversi ragazzi, in particolare quelli disabili, con i quali è fondamentale l’aggancio affettivo per intervenire in modo efficace.
Tutta la narrazione è piuttosto fedele ai fatti come si sono verificati, anche se spesso sono messi in rilievo gli aspetti comici di certi avvenimenti. Anche i nomi e le località che compaiono nel testo sono di fantasia, spesso mantenendo un'affinità sonora o lessicale, pur trasfigurata, con quelli reali.
Introduzione
Ho
scritto questo resoconto degli anni di precariato nella scuola con
l'intento di condividere la mia esperienza e cercare di far
comprendere meglio una realtà che è difficile immaginare se non la
si vive direttamente.
L'idea di scuola che
forse molti ancora hanno e si concretizza nel docente issato sulla
cattedra che elargisce le sue conoscenze è ormai superata.
L'immobilismo di questa immagine ha lasciato il posto ad una
concezione molto più dinamica dell'insegnamento che non è più, per
fortuna, una mera trasmissione di nozioni.
L'insegnante al
giorno d'oggi non può limitarsi a conoscere la propria materia,
condizione comunque indispensabile, ma deve essere insieme educatore,
psicologo, mediatore linguistico, assistente sociale, mediatore di
conflitti, formato nelle più disparate strategie didattiche,
costruttore di piani personalizzati, cane da guardia e, negli ultimi
anni, anche esperto di arti marziali, visti i ripetuti attacchi anche
fisici che stanno aumentando in maniera esponenziale nei loro
confronti.
Tra
i motivi di questa perdita del prestigio sociale dei docenti,
sicuramente bisogna annoverare i continui attacchi che hanno subito
in un passato relativamente recente, anche da ministri
dell'istruzione, che definivano la scuola come “ammortizzatore
sociale” e consigliavano agli insegnanti di impiegare meglio il
loro tempo, magari andando a fare le guide turistiche. In questo modo
avrebbero davvero giovato al loro Paese, invece di cercare di tentare
di fare uscire dalle nebbie dell'ignoranza il maggior numero
possibile di ragazzi.
Un
altro motivo è il dilagare della convinzione, veicolata soprattutto
attraverso i social media, che ognuno possa dire la sua praticamente
su qualunque cosa e che la sua opinione possa avere lo stesso peso di
quella di un esperto di un determinato settore. Così praticamente
chiunque può giudicare l'operato, non solo di un allenatore di
calcio, ma anche di un magistrato, di un medico, di un economista, di
un insegnante o di qualsiasi altra categoria di professionisti che
perdono l'autorevolezza nei relativi campi in nome di una democrazia
delle idee portata alle sue estreme conseguenze.
Al
giorno d'oggi ognuno si può curare andando a cercare notizie su
Internet, oppure può contrapporre il suo autorevole parere alla
sentenza di un giudice che sicuramente avrà competenze ed elementi
maggiori per poter prendere una decisione; oppure ancora snocciolare
la sua personale ricetta di politica monetaria per uscire dalla crisi
economica.
Nessuno dovrebbe
impedire ad un genitore, quindi, di andare a contestare un voto
negativo preso a scuola dal suo bambino; e, se l'insegnante si
ostinasse a rimanere della sua ottusa opinione, avrebbe il sacrosanto
diritto di alzare la voce e, all'occorrenza, le mani.
Conclusa questa
doverosa premessa, vado a presentare il libro che comincia con il
senso di smarrimento seguito al conseguimento della laurea, continua
con la descrizione del biennio trascorso a frequentare il surreale
corso di specializzazione per la preparazione all'insegnamento e
arriva alla narrazione delle prime supplenze.
A
questo punto cominciano le prime vere esperienze di lavoro nella
scuola, prima con supplenze brevi e anche brevissime, poi, a mano a
mano che riesco ad accumulare punteggio, sempre più lunghe fino ad
arrivare, dopo aver fatto una miriade di esperienze, al sospirato
posto di ruolo.
Nel
raccontare questo percorso di formazione, sia umano che
professionale, ho cercato di rimanere sempre fedele ai fatti così
come sono accaduti, mettendo soprattutto in rilievo quelli più
surreali e comici che a tratti si susseguono in maniera incalzante.
Per far capire come funzionano certi meccanismi della scuola, ho
anche inserito delle brevi spiegazioni che rendere più chiare alcune
questioni che dall'esterno non apparirebbero tali.
Ovviamente questo
testo non pretende di avere velleità letterarie ma vuole essere il
racconto, appunto, della mia personale formazione di insegnante per
offrire un punto di vista dall'interno di una professione che è
sempre meno apprezzata ma che riesce ad offrire anche, in certi
momenti, alcune soddisfazioni; soprattutto quando ci rendiamo conto
che i nostri sforzi hanno davvero contribuito alla crescita dei
ragazzi che hanno condiviso con noi una buona fetta del loro tempo in
un certo periodo della loro vita.
Alla fine del
resoconto degli anni di precariato ho inserito anche una piccola
appendice in cui ho trattato brevemente alcune tematiche che non ero
riuscita ad inserire nei capitoli del testo.
Senza pretendere di
esaurire la materia, si va dai bidelli alle innovazioni tecnologiche,
dai genitori alle trasfigurazioni che subiscono alcune conoscenze
dopo essere transitate attraverso gli alunni, dagli adempimenti
burocratici al racconto dei caotici ricevimenti dei genitori.
Anche in
quest'ultima parte, come nel resto del libro, ho cercato di
evidenziare gli elementi comici dei vari avvenimenti, ma allo stesso
tempo di restituire un resoconto quanto più possibile vicino alla
realtà, anche se mediato sempre dalla mia personale esperienza.
CAPITOLO
PRIMO
Ssis:
il biennio surreale
La
laurea era alle spalle e, dopo i festeggiamenti e la fugace
soddisfazione che l'aveva accompagnata, scrutavo l'orizzonte del mio
avvenire scorgendo nuvole di incertezza. Non sapevo cosa mi
riservasse il futuro, ora che anche l'ultimo atto del mio corso di
studi si era consumato.
Provai a fare
qualche lavoretto precario ma era ovvio che non potevo affidare la
mia sussistenza a cercare di vendere, con tecniche di persuasione al
limite della correttezza, libri o altri oggetti a persone che non li
volevano. Forse qualcuno poteva trovarlo stimolante ed esserci
portato, ma sicuramente non faceva per me.
Trascorsi qualche
mese in questo limbo di incertezza, fino a quando il mio orizzonte
caliginoso non fu squarciato da un lampo che mi indicò con estrema
chiarezza la strada che dovevo seguire: quella della SSIS.
La
SSIS stava per Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento nella
Scuola Secondaria ed era lo sbocco naturale di quei laureati,
specialmente nelle materie umanistiche, che non avevano molte altre
chances per approdare al mondo del lavoro. In pratica, chi non vedeva
altre vie d'uscita si dava all'insegnamento.
Prima di allora non
avrei mai pensato di fare l'insegnante. Pensare di trascorrere la mia
vita davanti ad una platea eterogenea di ragazzini svogliati e spesso
maleducati, cercando di trasmettergli qualche nozione di grammatica o
storia, mi faceva accapponare la pelle. Ma, come dicevo prima, ero
entrata a far parte della schiera di chi non sapeva quale strada
prendere e di qualcosa dovevo pur vivere.
Sostenni quindi
l'esame di ammissione insieme ad una folla di circa trecento
candidati giunti da tutta Italia e mi ritrovai iscritta alla SSIS,
ovviamente dopo aver versato fior di quattrini perché c'era da
foraggiare una schiera di professori universitari, tutor e assistenti
vari che erano ben felici di formare le nostre menti e renderle
pronte a trasmettere il sapere alle giovani generazioni.
Versato il mio
corposo contributo alla causa, un giorno di gennaio mi ritrovai in
un'aula affollata e vociante dove si sarebbe svolta la prima lezione
del nuovo entusiasmante corso di studi che ci avrebbe introdotto alle
tecniche della didattica dell'insegnamento, infarcendo il tutto di
nozioni di pedagogia e psicologia e via dicendo, oltre a spedirci
nelle varie scuole della città per fare esperienza sul campo.
All'improvviso il
vociare si spense e, preceduto da un portaborse, fece il suo ingresso
il Megadirettore della SSIS della regione, nonché prestigioso
docente di Letteratura italiana dall'università della città, il
professor Urtis.
Questi, con voce
tonante, cominciò ad illustrare l'organizzazione del corso biennale
di specializzazione, facendo riferimento a questioni pratiche, come
il massimo delle assenze consentite, e a questioni formative
minacciandoci di bocciarci all'esame se non avessimo conosciuto a
puntino tutta la storia della letteratura italiana dalle origini ai
giorni nostri, con particolare attenzione ad alcuni autori che
riteneva fondamentali, come Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto,
Tasso, Leopardi, Foscolo, Pascoli, Gadda e Carducci. Sì, Carducci
era annoverato tra gli autori fondamentali della nostra letteratura
e, a chi interveniva dicendo che i ragazzi di oggi non sentivano come
vicino il pensiero di Carducci, rispondeva che allora essi dovevano
cambiare modo di pensare.
Ad
un certo punto, mentre rispondeva alle varie domande che gli studenti
gli sottoponevano, Urtis si fermò e gridò con voce autoritaria:
“Lei, venga qua!” Tutta l'aula si voltò indietro per guardare
dove si erano rivolti gli occhi fiammeggiante di Urtis e videro un
ragazzo magro che con aria incerta aveva varcato in quel momento la
soglia della SSIS. “Lei è arrivato in ritardo “continuò il
Megadirettore “Venga a firmare qui e indichi esattamente l'ora del
suo arrivo”. Il neosissino si avvicinò umilmente al pulpito
dell'orante, chiedendo venia per il colpevole ritardo ma Urtis aveva
già ripreso le sue argomentazioni e rispondeva alla domanda
successiva.
Quando uscii
dall'aula ero un po' frastornata dalla confusione e perplessa per la
presentazione del corso. Ovviamente sapevo che sarebbe stato
impegnativo ma non capivo come mai dovevamo di nuovo sostenere esami
di Letteratura, di Storia e di Geografia quando già lì avevamo
affrontati all'università. Ma presto mi sarei resa conto che questa
richiesta non era certo più gravosa rispetto a quelle che si
sarebbero presentate tra breve.
Cominciai dunque a
frequentare le lezioni della SSIS e, oltre alle lezioni frontali
delle varie discipline di studio come, appunto, Storia, Letteratura e
Geografia, c'erano anche quelle della cosiddetta Area Comune
(psicologia, pedagogia, didattica, ecc.) in cui vari docenti
universitari, che talvolta si lamentavano del fatto che dovevano
venire al nostro cospetto per una paga da fame (poche centinaia di
euro per un pomeriggio), spesso si limitavano a leggere delle
diapositive proiettate sui muri delle aule che forse neanche avevano
messo insieme loro. Mentre leggevano facevano considerazioni banali e
scontate aspettando che arrivasse l'ora di tornarsene a casa.
Ovviamente e per fortuna c'erano anche delle eccezioni e alcuni
insegnanti erano davvero bravi, arrivando a fornirci anche
indicazioni più concrete e non solo nozioni teoriche.
Ma
la parte più inquietante era rappresentata da quelli che chiamavano
“laboratori” tenuti da docenti delle scuole secondarie che si
prestavano a questa nobile causa di educare noi, futuri colleghi,
facendoci dono della loro decennale esperienza di lavoro. Sicuramente
erano armati delle migliori intenzioni ma, complice il caos
organizzativo di cui erano a loro volta vittime, il parto di tali
laboratori era davvero travagliato e gli esiti talvolta bizzarri.
I
pomeriggi del laboratorio erano suddivisi in genere in due parti.
Nella prima il tutor illustrava l'argomento che dovevamo trattare, ad
esempio la Rivoluzione Industriale, e il modo in cui strutturare una
serie di lezioni a scuola, mettendo il rilievo gli obiettivi, le
finalità, i tempi di attuazione, le competenze che gli alunni
dovevano possedere per affrontare tale argomento e il tipo di
verifica richiesto alla fine dell'argomento trattato. Dopo aver
ricevuto le indicazioni, ci invitavano a formare dei gruppi di lavoro
all'interno dell'aula per promuovere la collaborazione e la
condivisione delle competenze. Mentre eravamo alle prese con la
costruzione della lezione, poteva accadere che il tutor si assentasse
per un breve periodo di tempo.
Terminato il lavoro,
sottoponevamo all'insegnante i risultati della simulazione e, almeno
all'inizio, quasi mai andava bene quello che avevamo fatto. Anche se
apparentemente il gruppo aveva seguito tutte le indicazioni, la
lezione costruita in laboratorio aveva sempre qualche problema,
legato alle finalità che erano troppo vaghe, agli obiettivi poco
definiti, alla scansione dei tempi poco realistici, alle verifiche
non adatte, ecc. Sicuramente erano errori dettati dall'inesperienza
ma spesso l'impressione che avevamo era che il tutor nel frattempo si
fosse consultato con i colleghi e avesse modificato i criteri che ci
aveva dato inizialmente con il risultato che i nostri lavori fossero
da rifare.
Dopo l'attività nei
piccoli gruppi, tutti dovevano confluire in un’aula più grande per
la cosiddetta plenaria nella quale un rappresentante di ogni gruppo
avrebbe illustrato ai colleghi i risultati conseguiti. L'aspetto
paradossale è che i lavori che avevano più successo presso i vari
tutor erano quelli più teorici e, ai miei occhi, meno adatti alle
concrete realtà scolastiche, almeno che non fossero licei. Alcune di
tali lezioni simulate erano anche molto belle ma, mi pareva,
difficilmente realizzabili in scuole medie con variegati livelli di
apprendimento e ancora meno in istituti professionali che in genere
presentavano moltissime problematicità.
Tra
i vari tutor ce ne erano alcuni piuttosto peculiari. Se capitavi nel
gruppo con Rombo di Tuono, un ometto di mezza età che invece di
parlare gridava, rischiavi di uscirne con l'udito compromesso, oltre
che un po' stordito.
Poi
c'era Olio di Oliva che quasi sempre aveva il cuoio capelluto unto,
forse perseguitato dai capelli grassi anche se il soprannome non si
limitava solo all'aspetto fisico, ma anche ad un certo modo di fare
sfuggente e poco coerente.
Tra
i corridoi potevi veder passare velocemente, quasi saltellante, la
tutor Grilletti che aveva il suo gruppetto di studenti SSIS preferito
che stimava e seguiva con grande attenzione e altri invece che non
riteneva troppo degni dei suoi servigi.
Il
soggetto più notevole era però Blu Hair, una signora sulla
sessantina con i capelli tinti di blu a cui di solito abbinava un
completo dello stesso colore. Tra l'altro veniva percepita come la
meno coerente rispetto alle indicazioni che dava all'inizio dei
laboratori e più volte le ho sentito fare delle prediche
interminabili a gruppi che secondo lei non avevano seguito le sue
linee guida mentre c'era il sospetto che nel frattempo le avesse
modificate, almeno che non fossimo vittime della sindrome di Don
Chisciotte.
Per
fortuna c'erano persone anche più normali e ragionevoli come Orso
Yoghi, un docente di Storia di scuola superiore che era solo un po'
abbondante fisicamente e si muoveva ondeggiando leggermente le
braccia dall’alto verso il basso e viceversa, ma per il resto era
fornito di una certa ragionevolezza e concretezza.
Anche tra i corsisti
la fauna era piuttosto variegata. La maggioranza della popolazione
era ovviamente femminile ma si potevano trovare anche alcuni
esemplari di sesso maschile. Tra questi c'era Carmine, corpulento
ragazzo campano, che amava parlare più delle ricette che preparava
in cucina che degli argomenti delle lezioni che probabilmente
percepiva come noiosi e a tratti fastidiosi. Un giorno in fondo alla
grande aula dove si tenevano le lezioni più affollate comparve una
signora piuttosto corpulenta la quale, seduta placidamente davanti
una cattedra che vi era posizionata, stava consultando delle riviste
di gossip e moda. Era la madre di Carmine che era venuta a trovarlo
e, non sapendo cosa fare nel pomeriggio, lo aveva accompagnato a
lezione. Ogni tanto alzava gli occhi e provava ad ascoltare quello
che veniva detto dai docenti ma subito tornava a più piacevoli
occupazioni.
Poi
c'era Pina Pineta, che si era laureata in qualche misteriosa
università privata del meridione, e ogni volta si stupiva
dell'insormontabile difficoltà degli argomenti trattati. Dopo
l'esame di Geografia si era molto lamentata delle ostiche domande che
le avevano posto su un argomento, a suo dire, difficilissimo, di cui
non aveva mai sentito parlare: la Guerra Fredda. Inutile dire che non
riuscì a superare il primo anno.
Ovviamente non erano
tutti privi di competenze e disinteressati. Era presente una piccola
percentuale di giovani donne sempre chine sull'immancabile portatile
che si impegnavano al massimo e talvolta intervenivano per
condividere il loro punto di vista. Qualcuna di queste le ho viste
più di una volta avventarsi sul professor Urtis appena prima di
cominciare le sue magniloquenti lezioni o subito dopo averle
terminate. Alcune addirittura si precipitavano a sistemargli il
microfono prima che iniziasse a parlare.
La
maggior parte dei corsisti per fortuna sembrava rendersi conto
dell'assurdità della situazione in cui si erano ritrovati e
cercavano di dare il giusto peso alle varie situazioni surreali anche
se di fatto era impossibile sfuggire alla sua realtà opprimente.
Tra
questi c'era sicuramente Tullio, un ragazzo molto preparato, reduce
da un dottorato di ricerca a cui, come spesso accade in Italia, non
seguono opportunità lavorative. Tullio talvolta faceva interventi
molto elaborati con una serie di subordinate che si accavallavano
l'una all'altra e tra le quali era quasi impossibile orientarsi. Il
malcapitato insegnante a cui era rivolta la domanda inizialmente
cercava di capire, poi cominciava a stringere gli occhi nello sforzo
di seguire il dispiegarsi dell'argomentazione e infine provava a
mettere insieme una risposta che quasi mai era coerente con quello
che era stato chiesto.
Aggirandosi per i
corridoi o tra i vari gruppi di lavoro si poteva sentire risuonare la
voce di Placida, esagitata capopopolo toscana, che era solita
prendere in mano l’organizzazione delle varie unità didattiche
assegnate in quanto molto carismatica e preparata. Di solito
raggruppava sotto il suo comando le persone che le andavano più a
genio e, ad alta voce, diceva: “Noi siamo il gruppo meglio”
oppure “Non siamo mica come loro che ci hanno messo otto anni per
laurearsi”. Ovviamente la superiorità del gruppo era determinata
dal fatto che fosse presente lei.
Il
secondo anno ci fu l’inserimento di qualche altro corsista. Tra
questi c'era una ragazza che subito fu ribattezzata Robocop in quanto
stava completamente immobile per la maggior parte del tempo, muovendo
solo la mano destra in modo quasi impercepibile per prendere appunti
salvo ogni tanto alzare la testa con piccoli scatti o girarla sempre
in modo robotico a destra o a sinistra. Ancora oggi non sono sicura
che si trattasse di un essere umano.
Quando, camminando
per l'edificio, giravi l'angolo, dovevi fare attenzione a non
imbatterti in Timor Est, una ragazza perennemente impaurita che
faceva un passo in avanti e due indietro quando doveva interloquire
con altri esseri umani. Una volta che, non so per quale motivo, mi
aveva chiamato a casa, mio fratello, che aveva risposto al telefono,
mi passò l'apparecchio dicendo:” C'è una bambina di otto anni.
Spaventata”.
Aveva una cultura
molto vasta e non aveva avuto problemi a superare gli esami, ma
faccio fatica ad immaginarla davanti ad una platea di ragazzi con i
quali sarebbe più indicato l'uso della frusta che la neutra
trasmissione delle proprie conoscenze.
Ma
l'elemento più peculiare del corso era sicuramente Carlo Cannellino,
un ragazzo sulla trentina con un viso pallidissimo che si muoveva con
passo lento e si esprimeva con un tono di voce molto basso. Un amico,
con cui normalmente facevo i lavori di gruppo, che aveva un animo
caritatevole, vedendo che veniva evitato da tutti, lo introdusse nel
nostro entourage. Non che contribuisse troppo alla realizzazione del
lavoro, anzi spesso mettevamo la sua firma al momento della consegna
anche se non aveva fatto quasi niente. Abbiamo cercato anche di
scrollarcelo di dosso qualche volta, ma ormai ci si era francobollato
ed era difficile togliercelo di torno senza essere abbastanza duri e
alla fine ci dispiaceva perché non sembrava avere grandi
alternative.
Talvolta si
assentava a ridosso della pausa delle cinque e tornava dopo oltre
un'ora. Dopo aver più volte chiesto lumi sul suo comportamento, alla
fine ci confessò che talvolta andava dall'estetista, a volte dal
parrucchiere, altre volte a sbrigare generiche commissioni. Un giorno
prese la mano di un ragazzo e se lo portò sulla fronte chiedendogli
di toccare i capelli che aveva davanti. “Stavo diventando calvo
“spiegò con un filo di voce “ho dovuto farli trapiantare”. In
effetti i capelli avevano una consistenza poco naturale, come fossero
di plastica.
Si
narra che, siccome fosse molto bravo a suonare l'organo, una compagna
di corso che si sposava proprio quell’estate lo avesse ingaggiato
per il suo matrimonio. Una volta finito il proprio lavoro Carlo
Cannellino aveva deciso che era il momento di andar via e si
intrufolò tra gli invitati che si congratulavano con gli sposi fino
a che non li raggiunse e chiese loro di pagarlo perché si era fatto
tardi e voleva tornare a casa.
All'esame finale di
Letteratura Italiana, stavo aspettando con un gruppo di persone il
mio turno per farmi interrogare. Il caso aveva voluto che anche a
Cannellino toccasse lo stesso pomeriggio. Ad un certo punto, sempre
intorno alle cinque, lo vediamo allontanarsi dicendo che sarebbe
tornato dopo poco. Rimaniamo perplessi perché tra breve sarebbe
stato il suo turno e infatti poco dopo il professore lo chiama per
farlo entrare. Rispondiamo che si è allontanato un attimo e Urtis,
senza fare una piega, passa al candidato successivo. Quando torna,
anche se sta per entrare un'altra ragazza, viene chiamato per fargli
sostenere l'esame. Passano una ventina di minuti e dall'interno si
percepisce appena la voce sottile di Cannellino intervallata dalle
risate fragorose di Urtis.
Quando Carlo esce
gli chiediamo come mai il professore stesse ridendo così
sguaiatamente. Lui risponde, sempre pacatamente, che era arrivato
all’esame senza un libro che era in programma perché, pur avendolo
ordinato, ancora non gli era arrivato. Urtis non si era assolutamente
arrabbiato per questo anzi era scoppiato a ridere quando Cannellino
gli aveva giurato che lo avrebbe studiato appena gli fosse arrivato,
anche se era estate. Ovviamente il trattamento riservato a tutti gli
altri esaminati era stato ben diverso. Pare che dopo la SSIS
Cannellino ebbe anche esperienze di insegnamento e mi giunsero
notizie di pellegrinaggi da una scuola all'altra inseguito dalle
raccolte firme dei genitori degli alunni che chiedevano ai presidi di
turno di rimuoverlo dal suo incarico.
Ora
passerò a parlare di una delle novità più significative apportate
dalla SSIS rispetto al concorso per reclutare i docenti:
l'introduzione del tirocinio nelle scuole, sia medie che superiori.
Lo scopo di tale attività era quello di calarsi nelle concrete
realtà scolastiche, fare esperienze direttamente sul campo
scambiando opinioni e ricevendo suggerimenti da docenti con una certa
esperienza. Il tirocinio formativo era strutturato in due momenti
distinti: la parte passiva e quella attiva.
Nel
corso del primo anno il tirocinio era soprattutto passivo, consisteva
quindi nel sedersi accanto dell’insegnante della classe e annotare
nel modo più dettagliato possibile come veniva condotta la lezione,
le metodologie didattiche, gli argomenti trattati, la tipologia degli
studenti presenti e quanti più dettagli significativi si riuscivano
a cogliere. Il tutor di classe in genere era un insegnante che veniva
assegnato dalla SSIS e che ovviamente svolgeva tale lavoro in modo
gratuito. In genere i tutor della SSIS (Rombo di Tuono, Blue Hair,
ecc.) si mettevano in contatto con i tutor della scuola dicendo
loro, per convincerli, che mandavano un corsista per 20-30 ore
all'anno. Inutile dire che le ore che i sissini dovevano svolgere
nelle scuole erano di almeno 120 all'anno tra medie e superiori e,
quando andavamo nelle scuole, eravamo noi che dovevamo informare chi
ci accoglieva che i numeri erano un po' diversi rispetto a quelli che
si aspettavano.
I
tutor a questo punto potevano reagire in modo diversi:
a)
esprimevano il loro forte fastidio nei confronti dell'istituzione
SSIS che li aveva raggirati e dichiaravano che non avrebbero fatto
nemmeno un’ora in più rispetto alle ore concordate;
b)
cercavano di volgere la situazione a loro vantaggio, cercando di
sfruttare il tirocinante lasciandogli la classe per lunghi periodi di
tempo o facendo svolgere loro varie mansioni di supporto;
c)
si rassegnavano alla situazione e cercavano di svolgere al meglio il
proprio lavoro di tutor.
Anche quando
trovavamo un tutor disponibile e preparato devo dire che l'attività
di tirocinio soprattutto il primo anno era piuttosto noiosa. Infatti,
dopo aver più o meno annotato ciò che succedeva in classe nel corso
delle prime dieci- dodici ore, il resto delle sessanta ore per ordine
di scuola era un continuo ripetersi delle stesse situazioni. Quindi
poteva capitare, un po' per stanchezza un po' per noia, che quasi mi
appisolassi accanto alla tutor che conduceva la lezione, per poi
svegliarmi di soprassalto quando lei richiamava la mia attenzione per
chiedermi un'opinione su un certo argomento.
La
prima volta che la tutor mi ha lasciato in classe per fare non so
cosa, i ragazzi si sono immediatamente rilassati da rigidi qual erano
in presenza della loro autorevole insegnante. Qualcuno si stirava,
qualcun altro si girava verso il compagno dietro di lui; dopo qualche
minuto quasi tutti parlavano tra loro e qualcuno si era messo anche a
gridare da un capo all'altro della classe. Non sapevo come fare per
riportare l'ordine e, pur cercando di alzare la voce per farli stare
zitti, i miei interventi erano quasi completamente ignorati.
Cominciai a pensare di avere fatto un grosso errore ad iscrivermi
alla SSIS.
Il
silenzio tornava assoluto solo appena la tutor si affacciava di nuovo
alla porta dell'aula e la lezione poteva riprendere normalmente. Devo
ammettere comunque che, nonostante questi momenti di difficoltà,
sono stata piuttosto fortunata ad incontrare la tutor delle medie la
quale, oltre ad essere molto preparata e con un grande bagaglio di
esperienza, mi ha fornito tantissimi suggerimenti e mi ha anche
spronato quando era necessario.
Per
quanto riguarda il tirocinio alle superiori, fui assegnata ad un
istituto tecnico. Inizialmente la situazione era più caotica in
quanto ero seguita dal vicepreside dell’Istituto il quale molto
spesso si doveva assentare per risolvere i vari problemi che si
presentavano a scuola e quindi non poteva seguirmi in maniera
assidua. Probabilmente aveva accettato questo incarico solo perché
tutti i colleghi lo avevano rifiutato. Il secondo anno invece fui
seguita da una docente molto disponibile e gentile che mi accolse nel
modo migliore facendomi fare anche diversi interventi in classe. I
ragazzi del Tecnico mi sono subito sembrati più simpatici rispetto a
quelli delle medie e, nonostante ci fossero anche casi problematici,
mi hanno accolta con curiosità e hanno ascoltato in silenzio le mie
lezioni anche se non erano né perfette né, forse, troppo
coinvolgenti.
Il
resoconto delle ore di tirocinio doveva essere appuntato nel
famigerato Diario di Bordo, un quadernino in cui giorno per giorno
dovevamo scrivere quello che succedeva in classe anche se, come
dicevo prima, dopo qualche tempo non sapevamo più cosa aggiungere
visto che le lezioni, salvo poche eccezioni, si ripetevano uguali a
sé stesse all'infinito.
Nel
corso del secondo anno, essendo il tirocinio attivo, per fortuna
potevamo partecipare maggiormente alle attività e, al di là delle
lezioni che preparavamo per la classe, c'era anche un lavoro di
supporto che consisteva per esempio nel portare un gruppetto di
ragazzi con qualche difficoltà fuori dall'aula per far colmare
qualche lacuna. Avevamo però un numero maggiore di ore di tirocinio
da svolgere e quindi la sensazione di perdere il nostro tempo, invece
di studiare per i numerosi esami che dovevamo sostenere, era sempre
molto presente.
Infatti, quasi tutte
le mattine eravamo impegnati nel tirocinio nelle scuole, quasi tutti
i pomeriggi nelle lezioni alla SSIS e a casa dovevamo sistemare e
rendere presentabili i laboratori che cominciavamo durante le ore
pomeridiani per poi spedirli ai vari tutor per la correzione.
Ovviamente quasi sempre non andavano bene e andavano rifatti, con
ulteriore dispendio di tempo. Nel tempo rimanente c’era da
preparare gli esami di Letteratura Italiana, di Storia, di Geografia,
la tesina di Area Comune, la relazione di tirocinio e la tesina
finale che doveva raccogliere e sintetizzare tutte le attività
svolte nei due anni di corso.
A
complicare il tutto, alla fine del secondo anno, gli esami furono
anticipati di quasi un mese rispetto alle date previste per
permettere agli abilitati SSIS di iscriversi alle graduatorie
permanenti (dalle quali le scuole attingevano i supplenti) entro la
data di scadenza di quell'anno che era fissata per metà maggio. Gli
ultimi due mesi del corso furono veramente al limite del delirio con
esami concentrati in pochissimi giorni, relazioni da consegnare e
correggere all'ultimo minuto, corsisti stressatissimi che oscillavano
tra comportamenti isterici e momenti di depressione, con volti
pallidi e smagriti che affollavano i corridoi in attesa di liberarsi
dell'esame successivo.
Nonostante queste
condizioni da corso di sopravvivenza, riuscimmo quasi tutti a dare
gli esami e ad iscriverci alle graduatorie. Probabilmente la SSIS era
solo propedeutica alle difficoltà che avremmo incontrato nel mondo
della scuola. Ora avevamo qualche mese di tempo per ritemprarci prima
di riprendere il mare per una nuova navigazione.
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