Respiro Readers
vi segnalo
l'uscita del romanzo
dell'autrice italiana
Angela Valcavi.
TITOLO: Fame. Il romanzo di una fanzine
AUTRICE: Angela Valcavi
CASA EDITRICE: Agenzia X
DATA USCITA : 15 Giugno 2017
Nell'estate del 1982 il bilocale di Marta è il punto di incontro per un gruppo di amici, finalmente il clima di repressione degli anni settanta volge al termine e sembra aprirsi un varco denso di nuove opportunità creative. Da un quartiere di Milano i giovani viaggiano alla ricerca di percorsi inesplorati per liberare la loro indole ribelle, smarcandosi dalla malattia del conformismo. L'idea di realizzare una rivista autoprodotta si trasforma in poche settimane nel progetto più totalizzante della loro breve esistenza, anche perché si rendono conto di avere tra le mani un formidabile veicolo per trasmettere la propria voce ad altre periferie delle città europee. Un romanzo tra realtà e finzione che prende spunto dalla storia di “Fame”, una delle prime fanzine italiane, scritto da una testimone diretta. Tra squat, musica, alcol e pasticche, gli umori e gli amori si intrecciano, la vita sfocia in un'evoluzione che porta i redattori ad assorbirne gli stili di vita più radicali, dal post punk all'industrial. Sono gli eroi del quotidiano o gli antieroi sociopatici di un'epoca da dimenticare? Poi tutto si ferma. Una corsa per non perdere l'autobus. Un botto. Forse la marmitta di un auto che passa... Una bolla di sapone avvolge tutto e sospende la realtà portandosela via in un altrove lontano. Carichi di rabbia, impotenza e dolore, i protagonisti si fermano a guardare per un'ultima volta ciò che è stato, fino al momento in cui realizzeranno di non essere più invincibili.
PRIMO
(Dead Kennedy’s)
Vorrei
aprire gli occhi ma non ci riesco. Sono prigioniera del sonno e
dell’afa, immersa in un bagno di sudore.
La luce
filtra dai listelli della persiana mentre le auto passano vicino e si
fermano incolonnate dietro al camion della monnezza che svuota il
cassonetto. L’odore del diesel entra dalla strada mischiato al fumo
di sigaretta che qualche passante sta succhiando, rumori metallici mi
perforano i timpani.
Brutta roba
il piano terra!
Devo
arrivare alla finestra e chiuderla per garantirmi la sopravvivenza!
Raccolgo le
energie residue da una notte estenuante e le concentro in uno sforzo
sovrumano per liberarmi dall’impasto della notte e apro finalmente
gli occhi sulla sveglia muta.
12.30.
Sono a
pezzi. Troppo caldo!
Scendo la
scaletta del soppalco, la mia palafitta urbana. Il contatto con la
moquette è soffice e quasi fresco. Il tappeto della mia giungla
privata mi rincuora mentre le auto là fuori sono ripartite liberando
l’aria e la via.
Bentornata!
Butto i
cuscini sull’amaca che ondeggia lentamente, mi guardo attorno per
una manciata di secondi, pochi quanto i metri quadri. Mi avvio in
cucina e preparo il caffè.
Dal cortile
entrano le voci stridule di due donne che litigano. Con tutti i
rumori dalla strada non ci avevo fatto caso.
Sul lato del
cortile il sole adesso batte a martello. Socchiudo la persiana.
Anche per
oggi sarà meglio rimanere in casa il più possibile finché tornerà
la sera. Con le mura spesse e lasciando la finestra aperta giusto uno
spiffero si riesce a mantenere una temperatura
sopportabile
anche senza ventilatore. Butto la testa sotto il rubinetto del
lavello e apro l’acqua mentre la caffettiera borbotta buongiorno.
Caffè, due fette di pane tostato, burro salato, marmellata di
albicocche e uovo alla coque.
«Ouh, e
fatela finita! Proprio qua sotto dovete rompere i coglioni!?!»
Dal cortile
un attimo di silenzio e poi le due arpie in coro: «E tu fatti li
cazzi tua!»
Accendo il
registratore a palla con una cassetta di roba pesissima. Ritmo
martellante, chitarre strazianti e urla animalesche. Un pezzo di
inferno sul bordo dell’infisso verso le due vicine di casa alza un
muro di distorsione tra i loro schiamazzi e il mio sistema nervoso.
Tra un morso
e un sorso l’occhio rimbalza su un foglietto appeso alla trave del
soppalco della cucina.
«È vero!
Stasera suonano gli Psikko al Fluo!»
Mi accorgo
improvvisamente del silenzio che si è fatto. Le due stronze sono
sparite e i Dead Kennedys hanno finito di pestare duro.
Fuori c’è
il deserto. Con il sole a picco chi vuoi che ci sia in strada adesso.
Solo
all’idea di uscire il sangue si trasforma in gelatina ma se non
arrivo in Fiera entro le sei, poi non ci trovo più nessuno e se
voglio andare al Fluo come faccio senza uno strappo? Il dilemma è
opprimente, aspettare il tramonto nella penombra o andare a cuocere
sull’asfalto metropolitano?
Finisco la
colazione e penso al da farsi. Ho la pressione di una lucertola.
Passo
mentalmente in rassegna i miei quattro vestiti neri e finisce che
come sempre metto le stesse cose. Mi inchiodo i capelli dritti sulla
testa con una passata di sapone, stampo una
spessa
striscia di eyeliner sulla palpebra, infilo la sottoveste nera in
rasone opaco a nido d’ape anni sessanta, allaccio sui fianchi il
cinturone nero a quattro file di borchie e metto le scarpe di
coccodrillo
nere vinte alla pesca di beneficenza tempo fa, quando andavo in
vacanza dalla nonna. Non indosso altro da quando è scoppiato questo
tragico caldo mese di giugno. Mi ci sento bene
e se
continua così ci faccio tutta l’estate. Questa che, ne sono certa,
verrà ricordata come la lunga e torrida estate del 1982.
SECONDO
Il
marciapiede è una striscia di burro nero. Non ti puoi fermare
altrimenti ti ci spalmi.
Alla fermata
dell’autobus ciondolo spostando il peso da una gamba all’altra e
ondeggio un po’ avanti e un po’ indietro. Avanti, indietro,
avanti...
I tacchetti
sprofondano lentamente e traforano l’asfalto che fondendo ha
ricoperto come lava parte del cordolo in granito.
Oltre ai
buchi dei miei tacchi, sul marciapiede c’è un campionario di fori
di diverse profondità e sezioni creato dalle centinaia di tacchi di
chi ha lasciato qui una traccia inconsapevole della propria
esistenza.
L’autobus
è vuoto. L’aria entra dai finestrini aperti e turbina fino in
fondo, all’ultima fila di sedili, dove mulinella tra i miei capelli
corti che vibrano come aculei. La città si sta lentamente popolando
di coraggiosi marinai cittadini in calzoncini e canotta, seduti sotto
ai tendoni dei bar a cavallo di sedie in plastica, intenti a farsi
aria con le pagine della “Gazzetta dello Sport” e a tracannare
birra ghiacciata. I condizionatori buttano nubi di aria bollente
fuori dai negozi. L’aria vibra di bolle roventi che deformano le
figure e regalano la suggestione del miraggio in formato deserto
metropolitano. Man mano che mi avvicino al centro si mischiano tra
loro tribù urbane e bande che mostrano le proprie insegne,
convergendo ognuno al suo punto di ritrovo.
Arrivo a
destinazione. Via Calatafimi. Fiera di Sinigaglia. Il mercato delle
pulci di Milano, una cartolina consumata da questa città puzzolente
che per un giorno dimentica i suoi ritmi automatici e si scopre
etnica e tribale, anche se ormai, dicono quelli che hanno passato i
quaranta, la fiera di Sinigaglia è finita. “Una volta sì che ci
trovavi di tutto” è la litania di ogni generazione che vede
passare il
tempo oltre ai sogni e alla giovinezza. D’accordo. Non sarà più
il regno dei ricettatori e dei rigattieri di Milano e provincia, ma
entrambe le categorie sono lo stesso degnamente
rappresentate.
Sopravvivono un paio di venditori di biciclette di dubbia
provenienza, qualche banco di pizzi e merletti, dischi nuovi e usati,
un po’ di militaria e robivecchi. Per il resto inizia ad
assomigliare a qualsiasi altro mercato di quartiere.
Adesso non
importa più cosa si compra, basta che ci siamo noi. Ci troviamo
sempre qui il sabato pomeriggio. Non si può mancare a questo
appuntamento, è la nostra liturgia che si
rinnova ogni
settimana. Da qualsiasi luogo della città o dell’hinterland uno
arrivi questo è il punto nevralgico degli incontri, il centro del
nostro universo. Il fascino antico della fiera si rinnova generazione
dopo generazione in questa via rubata al traffico per un giorno.
TERZO
Fuori
è tutto pronto. Abbiamo sistemato il tavolo e le panche sotto il
pergolato con la vite americana e oltre ad aver abbondato con candele
e lumini, abbiamo piazzato un paio di lampade da campeggio.
A
Baggio ci sono ancora un sacco di cortili, cortiletti e vecchie case,
mai toccate da quando sono state costruite, mai scalfite né dalla
guerra né dai proprietari, angoli di un passato da paese con le sue
storie di personaggi bizzarri e le sue tradizioni so- pravvissute
alla trasformazione del paese in città, come le corse degli asini e
la pesca delle rane nei fontanili.
Così,
nonostante la voracità urbanistica, questa parte di Baggio è
rimasta quello che è sempre stata, senza lo sfregio dei nuovi
palazzoni di periferia.
La
grande occasione per la svolta della mia vita si è presentata in una
di queste vecchie case di ringhiera.(…)
Senza
nemmeno rendermene conto è successo quello che avevo desiderato da
un mucchio di tempo. Mollare la casa popolare della mia famiglia e
andare a vivere finalmente da sola.
Le
quattro mura sono spesse e vecchie, persiane scorrevoli e mezze
marce, le piastrelle in gres esagonali, crema e rosse, sono sbiadite
dai passaggi di scarpe degli ultimi ottanta anni.
Il
cortile è il pezzo forte, con l’immancabile pianta di fico, l’uva
americana e la fontanella con la conca in granito. Due casette di
ringhiera si affacciano con i ballatoi su questa bella corte, per un
totale di nove famiglie. Con la maggior parte di loro, abbiamo
trasformato il cortile in giardino zappando e seminando, piantando
cespugli e rampicanti.
Quando
qualcuno ci mette piede la prima volta le frasi sono, nell’ordine:
“Bello qua!”, “Che culo che hai avuto”, “Non c’è
qualcosa di libero?”.
Sento
casino dal marciapiede e poi urlare da sotto il davanzale. Non faccio
in tempo nemmeno a pensare di andare ad aprire il portoncino e mi
ritrovo Nucleo in cucina che ha preso la scorciatoia entrando dalla
finestra che dà sulla strada.
«Minchia
e meno male che stai al piano terra! Ma quando lo mettono il citofono
qua?»
«Chiamare
no, eh?» gli urlo dietro mentre lui va ad aprire agli altri.
«Ecchemminchia
con il casino che abbiamo fatto!»
Intanto
dalla porta entrano Rupaz e Lora.
«Dai
diamoci una mossa che mangiamo finché c’è luce» dice Criss
riempiendo la pentola da mettere sul fuoco.
«E
Cesco?» chiedo a Nucleo.
«Ha
detto che doveva andare a prendere non so cosa.»
Lora
attacca il mangianastri a palla con la prima cassetta che trova e
inizia a rollare.
«Chi
viene con me da Stenlio a portare la roba nel frigo?» urla Nucleo.
«Ci
sono solo venti metri da fare, puoi andarci anche da solo.»
«Dai
Titillo che c’è da prendere il Negroni.»
«Ok,
allora mi hai convinto.»
Il
bottiglione di Negroni da due litri è un’operazione
paraindustriale. Imbuto, mezza bottiglia di gin, mezza di bitter e
mezza di Campari il tutto miscelato dal signor Stenlio per
l’insignificante cifra di 15.000 lire!
Il
sole inizia a scendere all’orizzonte oltre la tangenziale ovest e
la serata fuori si preannuncia favolosa. La canicola ha finalmente
mollato anche grazie al temporale che fortunatamente ha scaricato
altrove.
Arrivano
Nucleo e Titillo con il bottiglione di Negroni.
«UH
A UH A!»
Nucleo
indica Titillo. «Ehi, il minchione qua è andato al bancone, ha
guardato il tipo e l’ha chiamato signor Stenlio.
Che
pirla come se non sapesse che solo noi lo chiamiamo così!»
«Sai
che roba. Non sì è mica incazzato per così poco...»
«Ma
non ti è bastato vederlo? Gli manca Ollio vicino e poi facciamo Oggi
le comiche!»
«Ma
fammi capire. Lui ha sentito?» gli chiedo preoccupata per il
possibile deterioramento dei rapporti con il barista.
«Certo!
Infatti gli ha risposto un po’ scocciato che si chiama Attilio!»
«Ma
va! Ho sistemato subito l’equivoco e non è successo niente.»
«Cosa
gli hai detto?» chiedo a Titillo.
«Che
non ci sento bene e avevo capito una parola che finisce per -lio! Poi
gli ho detto che mi chiamo Titillo e si è fatto una risata, tutto
lì, non è successo niente di grave.»
«Dai,
ci hai fatto fare una figura di merda...»
«Ma
sì, Titillo ha ragione! Forse stiamo iniziando a farla troppo
pesante.»
E
infatti, proprio per non fargliela pesare più del dovuto usciamo
tutti in cortile con il bottiglione di Negroni in trionfo al grido di
TitiLIO, TitiLIO, TitiLIO.
QUARTO
Consumare
la nostra adolescenza in un quartiere di casermoni popolari imponeva
dei ritmi e dei riti, come appartenere a un gruppo. Nel nostro
quartiere ce n’erano diversi e i loro componenti venivano
individuati come Quelli del 12, inteso come numero civico, Quelli del
Bar Biliardo, Quelli dell’edicola, e Quelli della fontanella. La
sede di ogni gruppo era generalmente una panchina. Che
noia.
La zona produceva una moltitudine di apatici, inconcludenti e senza
sogni. Tanto cosa c’era da sognare? Tutte le sere si consumava lo
stesso rituale.
Una
canna dopo l’altra, inchiodati a marcare il territorio ignorando il
resto della città che stava cambiando. Il massimo dell’avventura
consisteva nel portare le chiappe al cinema Giada, fuori dal
quartiere popolare, verso la città, dove faceva la maschera Mario,
il padre della Carlina, una tipa che frequentava il centro di
controcultura. Io e Criss ci andavamo sempre volentieri per fumare
canne e sparare cazzate. D’inverno per sfuggire al freddo il cinema
era perfetto. A parte il film, che generalmente non era proprio un
capolavoro, in sala si raccoglieva la più varia umanità. Nubi di
fumo compatto di diversa qualità dall’afgano al marocchino, si
sollevavano a formare teli fluttuanti
al
di sopra delle teste allineate davanti allo schermo. Fumavano tutti e
Mario girava rassegnato tra le file di sedie di legno. Ogni tanto,
quando la nebbia in sala diventava una coltre pesante, si incazzava
davvero, acciuffava il primo a tiro per le orecchie, lo trascinava
fuori e tutti a far casino, a pestare i piedi per terra e a fischiare
finché non veniva rilasciato e fatto rientrare.
(…)
Poi Carlina aveva smesso improvvisamente di andare al centro di
controcultura e si era messa a girare con quelli delle case bianche.
Nel giro di un paio di mesi era cambiato qualcosa nella fauna del
quartiere. Si formavano veloci capannelli che si dissolvevano alla
stessa velocità con la quale
si
aggregavano. Tante facce nuove. Gente che veniva da fuori. Adesso al
cinema Giada molti entravano solo per andare in bagno. Mario e la
cassiera facevano del loro meglio per ostacolare il continuo via vai
nell’atrio, che non era più giustificabile con impellenti problemi
di vescica. Nel giro di un inverno la platea si era dimezzata e per
il papà della Carlina era diventato più
facile
tenere a bada quella massa di decerebrati. Poi, una sera di aprile
che diluviava, Mario si era fiondato nei cessi incazzato perché
stavano proprio esagerando. Entravano e uscivano correndo e sbattendo
le porte. In più avevano anche lasciato i rubinetti aperti.
«Adesso
basta! Chiama la polizia» aveva detto alla cassiera. Era deciso a
fare una piazzata. Un tipo alto era uscito di corsa urtandolo.
L’acqua stava colando dal lavabo intasato in una piccola pozza.
Mario aveva visto degli scarponcini di camoscio marrone con le punte
bagnate spuntare dal bagno delle donne. Li aveva subito riconosciuti.
Un urlo rauco da bestia ferita aveva
fatto
tremare tutto il cinema. La cassiera aveva riagganciato il telefono e
si era precipitata anche lei nei cessi. Attirati dalle urla eravamo
accorsi tutti.
Mario
piangeva e non la smetteva di urlare. La Carlina (...) adesso era lì,
lunga e distesa sul pavimento del bagno con la siringa ancora dritta
nel braccio. La cassiera era ritornata nell’atrio, si era
appoggiata al muro, bianca, premendosi le mani sulla bocca. Poi era
corsa fuori fino al parcheggio di fronte ai taxi, dove c’era la
Croce verde urlando: «Fate presto! Fate presto!».
Ma
per la Carlina non c’era più bisogno di fare in fretta, né di
correre, né di urlare come continuava a fare suo padre. Il primo
tempo non era ancora finito e il secondo non sarebbe mai iniziato. Un
silenzio irreale rimbombava nell’atrio del cinema, sovrastato solo
dai singhiozzi rabbiosi di Mario. Nessuno osava muoversi. Mario era
l’unico a non sapere che la figlia si bucava. Solo in quel momento,
appoggiato alle piastrelle bianche del suo obitorio privato, aveva
capito che sua figlia se l’era portata via da tanto tempo un mostro
bianco, (...) lì, nei cessi del cinema Giada.
QUINTO
«Londra. IL
MOVIMENTO DELL’OLTRAGGIO. Un compagno appena tornato da Londra
racconta il suo incontro con la ribellione giovanile: il punk rock.»
Era la realtà dei giovani disoccupati, emarginati, incazzati con
tutto ciò che li aveva preceduti, che si stavano creando uno
spazio; era
il trionfo del miserabile, del povero, dell’oltraggioso, così
diceva l’articolo.
Una corrente
veloce e improvvisa mi aveva percorsa e niente sarebbe più stato
come prima. Emarginata. Lo sono! Povera e disoccupata pure e anche
incazzata! Molto incazzata!
Le forbici
da sarta di mia madre erano grandi, dal taglio preciso, perfette per
far sparire le lunghe ciocche dei miei capelli. Una giacca da uomo.
Scarpe con i tacchi senza illusione di femminilità. Calzini a righe.
Cravatta di pelle su una camicia bianca e pantaloni aderenti a tubo.
Il nero intorno agli occhi a sottolineare la rabbia. Tanta rabbia.
Contro il perbenismo borghese. Andate tutti affanculo! Quando ero
passata davanti al soggiorno, mia madre aveva
sobbalzato.
«Oh signur!
Ma che cosa hai fatto?» aveva sospirato senza riuscire a dire
nient’altro mentre uscivo per raggiungere il collettivo. Se solo ci
fosse stata Criss... Avevo percorso il tratto di strada fino al
centro di controcultura con la sensazione di avere una vera e propria
bomba da far esplodere. E che bomba! Appena varcata la soglia del
centro la reazione era stata immediata. Riunione straordinaria.
«Che cazzo
ti sei messa in testa? Ma lo sai che i punk sono fascisti e che vanno
in giro con la svastica al collo? Se sei ve- nuta qui a provocare sei
all’indirizzo sbagliato! La rivoluzione ha bisogno di gente seria!
La confusione ideologica tipica del riflusso e della restaurazione
passa anche attraverso questi fenomeni falsamente identificati con il
termine cultura» mi aveva detto uno dei più grandi.
«Se vuoi
continuare ad avere agibilità politica qui dentro devi decidere da
che parte stare. O con noi o con i padroni che vogliono
rincoglionirti con la moda.»
Abbaiavano
tutti e io non riuscivo a dire una parola. Cosa avrei potuto dire?
Fanculo! Fanculo a voi, ai preti, alla famiglia, allo stato, alla
scuola, al lavoro, al quartiere! Si accanivano contro i miei simboli
con più tenacia ed energia di quanta ne impiegassero per abbattere e
distruggere i simboli
borghesi. Li
sentivo ma non mi interessava affatto quello che stavano dicendo.
Avevo già deciso. A ogni invettiva aumentava in me la consapevolezza
della carica rivoluzionaria dell’articolo su quella rivista. Ero
sempre più convinta della necessità urgente della sua grande
rivoluzione oltraggiosa.
Sì! Certo!
Siete soltanto degli schifosissimi preti. Ho tutto il diritto di
essere così. Non sono anch’io destinata alla disoccupazione? Non
arrivo dalle case popolari? Che futuro ho?
Lasciatemi
almeno l’oltraggio.
SESTO
(Psyco Killer)
Cronicamente
in ritardo sulle novità, quella canzone io non l’avevo mai sentita
ma era davvero una bomba. Mi ero buttata nella bolgia rimandando di
qualche minuto la memorizzazione di titolo, nome del gruppo e della
copertina. Poi, caricato un altro bicchiere era partito un altro
pezzo in-
credibile,
ma mentre tutti si buttavano uno addosso all’altro, d’un colpo la
musica s’è bloccata. Buio.
NOOO!
«Riattacca
la luce.»
Dal buio si
era alzato un urlo: UCCIDERE! VOGLIO UCCIDERE!
Un tipo
vestito in pelle nera con la zazzera bionda pettinata alla James Dean
avanzava in mezzo alla gente. Emergeva dal buio illuminato da una
torcia e a ogni frase batteva un pezzo di ferro per terra o contro le
pareti.
SBAM!
Non voglio
mangiare o fare l’amore!
SBAM!
Nel
frattempo Criss ci aveva raggiunti.
«Ma da dove
salta fuori? È un grande!»
Camminava
percuotendo e urlando la sua poesia metropolitana. Estasi! Momento
sublime per l’apparizione di quella scena cruda e così
entusiasmante.
‘Voglio
uccidere!
Voglio
uccidere! Uccidere!’
Degli
ululati si alzavano da più punti. Qualcuno gli rispondeva.
«Sì! Uccidere!”
Io e Criss
commentavamo a mezze frasi il testo. Infine, decantando i suoi decisi
versi crudeli, battendo e percuotendo al ritmo delle parole, il poeta
si era eclissato nel buio dietro a un muro lanciando le ultime
parole.
‘Voglio
uccidere, uccidere, chi vuole provare per primo? Fatevi avanti, non
siate timidi, date il buon esempio, avete tutto da guadagnare, visto
che non sapete vivere, avrete, almeno, l’opportunità
d’imparare
a morire.’
«Minchia!»
aveva esclamato Criss, iniziando a urlare.
«Bravo!
Grande!»
La musica
aveva ripreso a martellare e avevo visto Cesco, un tipo conosciuto
qualche festa prima, raggiungere il poeta, in estasi per la
performance. La furia poetica gli aveva rivelato nuovi sconfinati
orizzonti.
SETTIMO
«Dai, dai.
Una roba di satira tipo “Il Male”. Ve lo ricordate? Quella era
solo satira politica, mentre io ci vorrei scrivere qualcosa di legato
alla nostra vita e a questo momento» dice Nucleo di slancio.
«Ma va là,
“Il Male” è roba vecchia» dice Rupaz.
«È andata
a Male» ride Titillo.
«Adesso è
tutto diverso» prosegue Criss. «La satira e l’ironia ci stanno,
ma il taglio politico è fondamentale. Senza dimenticare che noi
stiamo in una merdosissima periferia e dobbiamo parlare anche di
questo.»
«Sì!!!
Dai, dai» fa Nucleo «facciamo la rubrica dal selvaggio uest!»
«Ah! Ah!»
Titillo è
d’accordo. «Certo! Chiamiamola Selvaggio Baggio.»
«Bello. Sì
mi piace» Rupaz è contagiato.
«Ma no. È
troppo locale, deve essere una fanza che parla del resto della città
e magari qualcosa anche dall’estero.»
«Seeeh!
Adesso parliamo di tutto il mondo, così ci montiamo la testa ancora
prima di iniziare e poi pensano che che vogliamo diventare famosi»
continua Titillo.
«Allora la
chiamiamo “Saranno famosi”» scherza Criss alludendo al telefilm.
«Ma sai che
non è un brutta idea.» Nucleo si è alzato trionfante. Quando fa
così vuol dire che ha un’idea bomba.
«Sarebbe
una bella provocazione, giochiamo sull’ambiguità del termine in
italiano e in inglese. Più che di fama noi abbiamo fame. Fame di
tutto. E allora chiamiamola “Fame”!»
«Bello.»
Si alza anche Criss: «Mi piace. È perfetto! Bravo nNucleo!».
«Sì, sì
mi piace. Siamo davvero affamati e incazzati. So hungry, so angry»
rispondo guardando Titillo e Rupaz che annuiscono.
Senza troppi
preamboli, tra un bicchiere di frizzantino e una latta di birra,
abbiamo trovato il nome.
(...)
Le mura dei
palazzi hanno finito di cedere il calore accumulato durante il
giorno. Le strade sono buie e deserte. In giro ci siamo solo noi.
L’unico rumore è l’eco dei nostri anfibi sull’asfalto. La
strada si apre sullo slargo del supermercato. Il piazzale lì davanti
è completamente vuoto. L’insegna illumina di luce glaciale gli
spazi rettangolari bordati di bianco. Nessuna macchina parcheggiata.
Nucleo si
mette davanti a un muro, lo guarda per un paio di minuti e poi dice:
«Eccolo. È perfetto. Bello, alto e libero, senza cartelloni
pubblicitari né affissioni. Tutto per noi.»
Lo spigolo
dell’edificio proietta la sua ombra producendo un
confine
netto, una linea di demarcazione tra luce abbagliante e
buio
profondo. È il posto ideale per la nostra azione.
«Non è
geniale scrivere FAME sul muro di un supermerca-
to?»
continua Nucleo ormai già in trance agonistica.
«Aspettate...»
Vado dalla
parte opposta, oltre la strada, per vedere se si nota il movimento
con scopa e vernice. I fari del parcheggio, la grande insegna e luci
interne creano un forte contrasto con la parte in ombra dove Nucleo,
Titillo, Criss e Rupaz stanno armeggiando con il barattolo di tinta.
Li raggiungo
entusiasta.
«Ok. È
perfetto. Non si vede niente. Siamo completamente coperti
dall’ombra.»
Criss ha
aperto il bidone e intinge la scopa. Titillo ride. Si comincia.
«Bella
grande eh. Come le scritte che facevano una volta sui muri, nel 1968.
Altro che bombolette» incita Nucleo.
«Sì! Se ci
cuccano gli possiamo sempre dire che rispettiamo l’ambiente» dice
Criss mentre alza il pezzo di scopa carico di bianco.
«Cosa dite
va bene largo così?» chiede Nucleo.
Ci guardiamo
scuotendo la testa.
«Nooo. Di
più, di più!»
All’improvviso
Criss si blocca con la scopa in aria. Da dietro l’angolo, dalla
linea obliqua dell’ombra spunta una guardia notturna che cammina
spingendo la bicicletta. Ci fermiamo.
Anche l’uomo
si ferma. Lui ci guarda. Anche noi. Si vede che è stanco. Ha la
stanchezza del pianeta impressa nelle occhiaie profonde. Porta la
mano al taschino della camicia nera della divisa attraversata dallo
spallaccio e prende unpacchetto di nazionali senza filtro, la batte
sul pacchetto e si
mette una
sigaretta tra i denti. Se l’accende, ci guarda e butta il fumo in
alto, poi lo segue con lo sguardo nel cielo bianco d’afa. Indugia.
Nucleo con il pennellone in mano che sgocciola di bianco, cerca di
fare il brillante: «Si sente un po’ d’aria in bici?».
Il
metronotte guarda la brace della sigaretta, la scrolla con il pollice
e dice: «Non vedi che sto camminando? Cosa state facendo?».
«Mah,
niente. Dobbiamo scrivere un messaggio d’amore alla sua ragazza che
abita in quella finestra lassù. Hanno litigato e...»
«Io ho
quasi finito il mio giro. E non voglio storie.»
«No, no, ci
mettiamo poco. Buonanotte.»
«Mmm... Non
fate casino.» La guardia lascia la bicicletta con il pedale
appoggiato al cordolo del marciapiede, fa qualche passo, infila il
bigliettino del controllo nella scanalatura della saracinesca del
negozio. Ci guarda muto un’ultima volta, poi inforca la bici e se
ne va con la faccia ancora più stanca.
OTTAVO
Arriviamo
nel pieno di una battaglia di gavettoni. Una delle due fazioni si è
impossessata di un idrante collegato a un bocchettone dell’acqua e
respinge chiunque si avvicini. Il terreno si è trasformato in un
pantano. Restiamo in disparte a guardare ammirati quell’angolo
liberato. La serra è grande, molto abbandonata e molto distrutta, ma
è magnifica.
Una ragazza
ci raggiunge di corsa. È fradicia, ride. La maglietta strappata le
sta appiccicata addosso. Si ferma ansimante e appoggiando le mani
sulle ginocchia, guarda prima verso il basso,
prende fiato
e alzando il viso chiede a Criss: «Chi cercate?».
“Abbiamo
saputo dell’occupazione e così siamo venuti a dareun’occhiata...»
«Siete di
qualche radio, casa occupata oppure del comune?» ride lei mettendo
la mano dalle parti della milza.
«No. Siamo
del quartiere e...» dice Rupaz.
«Va bene,
fatevi un giro. Se volete darvi una rinfrescata là ci sono i secchi»
e riparte di corsa ad armarsi.
«Cazzo! Ma
questo posto è spettacolare» Titillo è il primo a commentare.
«E chi lo
sapeva che c’era!» Criss avanza verso la costruzione a vetri.
La vecchia
serra è in uno stato pietoso e dentro fa un caldo bestia. Ma
l’assenza di piante e di parecchi vetri dei pannelli di copertura
rendono l’interno non più umido di quanto sia già
sufficientemente
garantito dalla giornata. Ci sono tavoloni con vasi e vasetti rotti a
metà o sbriciolati. Piante secche buttate a terra, radici scoperte,
due divani logori, un paio di panche in le-
gno. Sul
lato corto è stato improvvisato un bar. Un cavo elettrico penzola
come una liana dalla copertura e arriva a destinazione in un quadro
che distribuisce corrente a qualche lampadina,
un
frigorifero, una radio mangianastri. Una robinia è cresciuta
nell’angolo opposto ed esce dalla copertura proiettando la sua
ombra poco distante da noi. Ora la battaglia è finita e la ragazza
che ci aveva accolto poco prima ci raggiunge.
«Volete
bere qualcosa?» gira velocemente dietro al bancone e tira fuori sei
birre quasi fredde. «C’è bisogno di gente per sistemare e far
partire lo spazio. Abbiamo in programma per sabato. Un concerto dei
Controtutto. Ci sono quelli della sala prove che ci daranno una mano
con strumenti
e
amplificazione. Appena hanno saputo dell’occupazione si sono
precipitati. E voi chi siete? Cosa fate?» ci chiede dopo la breve
presentazione.
«Noi stiamo
facendo delle riunioni per fare una fanza. Si chiamerà “Fame”,
perché abbiamo fame di tutto» inizia a raccontare Criss.
«Ah, ecco.
Siete stati voi a fare la scritta vicino al supermercato.» La voce
di un tipo arriva dall’ingresso della serra. Anche lui è inzuppato
fino al midollo.
«Bella lì»
Titillo abbraccia l’amico e ce lo presenta.
Si stringono
la mano, si prendono il polso, poi si agganciano le quattro dita
piegate e si aggrappano ai pollici.
«Lui è
Pino.” (..)
Più tardi
alla riunione ci sono una dozzina di persone che si domandano chi
siamo. Elena, la ragazza conosciuta nel pomeriggio, ci presenta come
un gruppo del quartiere, precisa che Pino conosce da tempo Titillo,
che ci vorremmo unire all’occupazione e lascia la parola a Criss
che spiega immediatamentetutta la faccenda di “Fame”. Passano due
ore tra proposte, perplessità, progetti e or-
ganizzazione
del calendario dei lavori. Il nostro ingresso nel collettivo è stato
accolto con entusiasmo insieme alla proposta della festa di
finanziamento.
(...)
Il tempo a
disposizione è poco, manca una settimana al concerto e poi dobbiamo
pensare a organizzare la festa di finanziamento. Visto che
stranamente l’acqua non è ancora statatagliata, facciamo un
abbondante uso delle canne e dell’idrante per finire di ripulire
dentro e fuori. Il terreno del piazzale su cui è costruita la serra
è dissestato, pieno di buche, di pezzi di mattone e di vasi che
emergono a tradimento, così i ragazzi armati di badili e carriole
cercano di spianare, riempire e livellare. (...)
Il rumore di
un’auto dalla stradina non asfaltata arriva a gran velocità. Il
polverone che si alza supera il muro di cinta della serra. La
macchina dei vigili si ferma davanti all’apertura a motore acceso.
Il ghisa alla guida resta con il braccio piegato con il gomito fuori
dal finestrino, la destra stringe nervosa il volante. Ci scrutiamo,
noi tutti fermi, schierati, appoggiati a pale, scope e badili. Poi
l’uomo al volante mette la retro e lentamente l’auto se ne va.
(...)
Venerdì è
tutto pronto.
Il palco di
un metro di altezza messo insieme con assi e tubi è solido e
massiccio. I banchi e le sedie arredano il bar. La lavagna vicino
all’ingresso indica il nome del gruppo e l’ora in cui inizierà
il concerto. C’è anche una grande bacheca con affissi fogli,
volantini e manifesti delle iniziative nei vari posti occupati della
città, manifesti dell’Olp e volantini contro Israele fascista.
«Che
figata!» Criss è entusiasta.
Tutti lo
siamo. Roberto della sala prove ha preparato l’impianto e fa
partire la musica. Ha anche sistemato meglio l’allaccio abusivo al
lampione in strada rendendo la fornitura elettrica più sicura.
Ci mettiamo
a ballare sulla grande pedana di assi e tavole alla base del palco.
NONO
«Marta!
Marta!»
Franz mi sta
chiamando dal marciapiedi sotto la finestra. Il cuore pulsa nello
stomaco, rimbalza nelle tempie, rimbomba nel petto.
«Sei pronta
a partire?» indica con orgoglio il motorino come se fosse il nero
destriero ammantato a festa per la giostra del saraceno. Invece è un
Ciao arancione sbiadito dal tempo e dai chilometri.
«Ma dove mi
metto?»
«Sul
portapacchi!»
«Ma ce la
fa a portarci in due?»
«Be’, noi
ci proviamo.»
«E se ci
beccano i vigili?»
«Ci
inventeremo qualcosa.»
Partiamo. Mi
aggrappo dietro. Devo tenere le gambe contratte per non toccare a
terra con i piedi. Ci dirigiamo verso il Beccaria, il carcere
minorile, dove c’è una grande discarica. Auto abbandonate, pezzi
di moto, biciclette distrutte, materassi, frigoriferi, stufe, tubi,
bidoni. Un enorme rotolo di moquette, tomaie, matasse di guaine di
plastica, mobiletti di legno ormai sfatti, vasche da bagno, cessi e
piastrelle rotte. A volte i camion scaricano terra marcia da chissà
dove e spesso, dopo la pioggia, si formano pozzanghere che portano a
galla strati oleosi e maleodoranti.
Il terreno è
abbandonato all’incuria da anni, circondato da strade di
collegamento dove nessuno pensa di fermarsi se non per buttare
qualcosa o rimorchiare qualche tossica che si prostituisce sotto la
luce giallastra dei lampioni la notte. Intorno, sui limiti della
discarica e di fianco al carcere mi-
norile,
sopravvive qualche fontanile dove galleggia di tutto.
Il
sopralluogo è positivo. Raggruppiamo un po’ di materiale che poi
ripasseremo a prendere.
«Ci
servirebbero un saldatore e delle forbici da lamiera. Dei rivetti e
una rivettatrice, un trapano con il disco da smeriglio...»
Smetto di
parlare perché mi accorgo che Franz mi sta guardando quasi
preoccupato.
«Embè,
problemi?» gli domando.
«Più o
meno... Ma tu hai già idea di cosa fare? Senza uno schizzo, un
disegno...»
«Sì, ho
tutto nella testa. Comunque appena trovo un foglio ti faccio vedere.
Invece dobbiamo pensare a come portare questa roba in serra.»
«Come? Con
l’Apecar del padre di Pino e Mimmo.»
Ci
rimettiamo sul vecchio motorino che sembra appena pescato dalla
discarica e tocchiamo l’imprevista velocità di trenta chilometri
orari, poi le sue incredibili prestazioni vengono messe
a dura prova
dalla salita del cavalcavia. Lentamente il motore perde colpi,
sbuffa, rantola, cigola...
«Spingi,
spingi!» mi grida Franz mentre apre la manetta al massimo.
Con grandi
falcate ci provo, ma inizio a ridere e le forze mi mancano e lui
pedala e io quasi corro da seduta sul portapacchi cercando di
imprimere un minimo di spinta fino all’apice della salita dove con
la coda dell’occhio intravvedo la macchina dei vigili. Finalmente
c’è la discesa e il Ciao prende la rincorsa,
Franz
abbassato sul manubrio per aumentare la velocità non si è accorto
della macchina che ci tallona.
«Vai! Vai
brutto ferro bastardo!»
Io sollevo i
piedi più che posso, rido con l’aria in faccia e con i vigili
attaccati alla ruota.
Poi in fondo
al cavalcavia ci affiancano. Ci superano, si piazzano davanti con le
quattro frecce. Rallentano e ci fanno cenno di fermarci.
«Signorina...
Forse è meglio se va a piedi. Non crede?»
«Be’, in
effetti arriverei prima.»
«Cosa fa?
La spiritosa?»
«No...
no... è la verità» aggiunge Franz.
Ok!Fine
della corsa.
DECIMO
La stanza è
esplosa insiema alla città.
Peeeeeep
peeeeeep. Clacson e trombe.
«...Uno a
zero per l’Italia all’undicesimo minuto del secondo tempo...»
Anna dal
ballatoio urla viva l’Italia! mentre il suo sorcio di cane ulula
con lei.
«...Gol di
Tardelli!»
Le facce
lucide dei giocatori parlano di fatica, i capelli incollati alla
testa e scomposti in ciocche dure parlano di sudore, di caldo e di
resistenza.
Le facce di
Malox, Rupaz, Pino, Titillo, Franz, Felix e Nucleo, quella di Lora
che non ci capisce niente ma le piace stare in quella dimensione
maschia, parlano di un rito colletivo, di passione, amicizia e tifo.
La mia,
quella di Criss e di Sandra raccontano pensieri, intuizioni,
creatività e progetti.
Abbiamo
impostato il sommario, un’idea di menabò, quattro bozzetti per le
prime due pagine, Sandra ci ha svelato i segreti della stampa in
offset, l’avevamo sfottuta perché fa la grafica per una rivista di
lavori femminili e invece ora siamo qui ad ascoltarla come se fosse
un guru. Il primo numero di “Fame” avrà sedici pagine, il minimo
stampabile.
Nucleo viene
a curiosare in un momento di sospensione dellla partita.
«Cazzo!
Bello!» dice dando un’occhiata al nostro lavoro.
«È la
prima struttura della fanza» gli risponde Criss. «Poi quando avrete
finito di sfegatarvi vi facciamo la sorpresa.»
«Ne ho una
anch’io» dice Nucleo.
Prende una
cartellina che aveva abbandonato sulla credenza vicino all’ingresso.
(…)
apre la
cartellina e ne tira fuori un mazzetto di fogli spiegazzati con le
vignette, le sparpaglia estappa una birra felice.
«Uuuaaahhhu...
guarda questa... anche questa qua» diceCriss facendo girare i
disegni.
«Sempre
detto che sei un genio.»
Una scritta
annuncia le vignette della serie: 101 travestimenti del pulotto.
Un
fricchettone con sandalo francescano, pantalone a zampa con toppe,
fiori, peace and love, giubbino jeans, croce al collo, fascia sulla
fronte e un enorme baffone da sbirro anni settanta.
Un altro
boato percuote il quartiere, ma questa volta di rabbia e delusione.
Ha segnato l’Argentina.
«Ma no, ma
no! Si fanno rifilare una pera alla fine della partita?» inveisce
Titillo.
«Va bene
così, va bene così, se non abbassano la guardia ormai è fatta. Fa
niente, va bene lo stesso. Mancano quanti, sette minuti? Va bene lo
stesso» conclude rassicurante Pino.
Il clima si
ammoscia un po’, poi questa manciata di minuti si consuma, si perde
verso la fine della partita.
«Ed ecco il
fischio finale! L’Italia ha ripetuto il successo di quattro anni fa
e ha superato l’Argentina nel secondo turno ai campionati del mondo
di Spagna...»
Fuori la
vita ritorna nelle strade, le auto prendono a incolonnarsi, qualcuno
si è attaccato al clacson e non si staccherà fino a notte fonda.
In casa
inizia lo smontaggio di antenna e televisore. Franz si avvicina al
tavolo per guardare il nostro lavoro.
«Però...»
Sposta le
vignette una alla volta, guarda gli schizzi che abbiamo fatto, prende
lo schema e dice: «Tutto questo mentre noi soffrivamo?».
Ci guardiamo
sconsolate.
«Vedi la
differenza di peso del cervello come si manifesta?» gli dice Criss.
UNDICESIMO
La marmitta
della Mercedes color nocciola sfiora l’asfalto. Gianni sposta un
po’ di libri e una coperta ammuchiati sul sedile posteriore di
pelle corrosa. Si sprigiona una nube grigia compatta che gioca con i
raggi del sole che bucano il finestrino, un giaccone di pelle pesante
da tramviere riesce ad abbattere parzialmente la nube cambiando di
posto e mi fa accomodare
con un
sorriso.
«Prego
madonna, nel senso medievale, gentil pulzella» dice con un sorriso
che scopre un dente ricoperto d’argento e uno mancante.
A quest’ora
il traffico è impazzito. Tutti hanno fretta di arrivare a casa. I
semafori danno un ritmo che nessuno avrebbe voglia di rispettare. Le
strade laterali immettono flussi continui di automobili nell’arteria
principale. Gianni ha preso a saltellare sul sedile. La sua
eccitazione aumenta a ogni colpo di clacson. Franz è appeso alla
maniglia di sicurezza sopra al finestrino con
entrambe le
mani. Dal sedile posteriore, a ogni sobbalzo della vecchia auto, si
sollevano sbuffi di polvere con acari festanti. Ondeggio di qua e di
là ogni volta che una curva impegna Gianni, che la affronta con
l’impeto di un rally nonostante il traffico lento. Non ho maniglie
a cui aggrapparmi. Posso solo affondare tra maglioni, coperte, libri
e polvere. A una rotonda sento gli pneumatici lottare per restare
aggrappati all’asfalto con lo stridio della gomma. Ma come fa a
guidare così con il traffico da ingorgo che c’è? Finalmente un
rosso.
«Come si
può sopravvivere in questa giungla di animali feroci, pronti a
sbranarti! Ti costringono a essere così. Guarda noi. Non vedete come
siamo diventati cattivi? Guarda quello lì che faccia da pirla»
indica un ometto con gli occhiali spessi sull’auto affiancata a
Franz.
«È vero,
questa città ha dei ritmi famelici che sembrano farci soffocare.
Basta ignorarli e non cadere nella trappola, no?»
Franz cerca
di mettere una pausa alla tensione. Sembra implorare in codice, teme
per la nostra incolumità più di quanto io possa immaginare. Uno
strappo all’indietro e capisco che il semaforo è passato al verde.
«Come si fa
a non farsi mettere nell’angolo!» Gianni molla il volante e si
mette le mani tra i capelli che sembra la trasfigurazione dell’urlo
di Munch.
L’auto
sbanda fa un pelo al tipo con gli occhiali che è sempre al nostro
fianco, quello frena e si mette a distanza di sicurezza perché poi
così pirla non è. Franz impugna il volante.
«Attento!»
Gianni con
un sussulto riprende il controllo del mezzo. Finalmente arriviamo a
destinazione. Parcheggiamo alla minchia con una ruota sul marciapiede
dopo aver urtato contro il tronco di un platano.
Ho gli occhi
rossi e mi cola il naso.
«Ti sei
commossa?» mi chiede Franz, che sa della mia allergia. Entriamo
nella casetta di Gianni, un edificio pseudopopolare dei primi del
Novecento con il pianerottolo in graniglia come il pavimento del
bilocale al piano rialzato dove vive. Ci sediamo al tavolo del
soggiorno, in stile tirolese con le panche in legno. Lui scompare nel
cucinotto a preparare il caffè e Franz, soffocando le risate, mi
indica il culo di Gianni.
«Cosa?
Dove!»
«Ha uno
spillo nel culo!»
Gianni torna
dal cucinino e inizia a girare febbricitante tra gli scaffali che
ricoprono tutte le pareti e prende libri, opuscoli e quaderni. Ogni
volta che si gira di spalle vado alla ricerca dello spillo e lo
trovo. Un grosso spillone è infilato alla meglio nella cucitura del
cavallo dei pantaloni. Si intravvede la mutanda bianca di cotone a
costine.
«Ehi!» gli
dico «stai attento quando ti siedi che rischi di farti male.»
«Io?» mi
guarda stupito.
«Sì hai
uno spillo dietro, nel mezzo dei pantaloni.»
«Ah sì, mi
si sono scuciti e mi dimentico sempre di cucirli. Ma tu sei capace?
Per forza, sei una femmina. Dai, ti do il filo.»
E già,
perché non ci ha pensato prima? Si leva i pantaloni, me li lancia e
recupera una striscia di fili multicolor intrecciati, quelli da
emergenza casalinga. Non se ne esce. Femmina fa mamma, cucina, bucato
e pulizie. Maschio fa tutto il resto.
«Comunque è
probabile che Franz cucia molto meglio di me, perché non l’hai
chiesto a lui?» Una domanda che cade nel vuoto anche se Gianni mi
lancia un’occhiata come se stesse pensando che sono strana. Il
caffè borbotta, lui prosegue nella ricerca di testi mentre Franz
ride. Io invece continuo a smadonnare.
«Non è che
devo anche servire il caffè?» sussurro.
Invece no,
lo fa lui e poi si siede davanti a noi.
«Bene, sono
tutto per voi.»
Piazzo il
walkman in registrazione e iniziamo una specie di intervista con
Gianni che è un fiume in piena. Ci legge brani, poesie, riflessioni
che ha appuntato su decine di quaderni che apre con precisione
chirurgica esattamente sul brano che ci vuole leggere. A noi non
rimane che chiedere qualche precisazione, qualche dettaglio su
qualcosa che ci sfugge.
Dopo un paio
di ore ce ne andiamo ebbri e frastornati di poesia, con la promessa
di vederci alla Latteraria per un reading. Lo lasciamo sulla soglia
in mutande mentre realizza che lo squarcio nei suoi pantaloni non è
ancora suturato.
DODICESMO
Verso
mezzanotte Nucleo, Titillo e Malox ci raggiungono a casa di Criss.
Stiamo mangiando l’anguria con i vicini in cortile.
I manifesti
sono stati arrotolati alla perfezione, sovrapposti uno sull’altro
separati di qualche centimetro, in modo da poter essere svolti
agevolmente sul muro. Dopo una veloce presentazione
i ragazzi
preparano la colla e mentre si addensa facciamo tutti un altro giro
di anguria.
Partiamo.
Nucleo siede davanti con il secchio di colla tra ipiedi. Dal sedile
posteriore Titillo fa rimbalzare il suo rotolo da ottanta manifesti
sulla testa di Nucleo che ovviamente si
incazza e
gli molla un cazzotto sulla gamba urlando: «Cazzo! Sei peggio di una
zanzara».
Titillo ride
e gli sequestriamo il rotolo dopo averlo percosso con i nostri. In
tutto abbiamo trecento tra volantini e manifesti per tappezzare i
punti strategici. Prima tappa fiera di Senigaglia.
Nucleo passa
la colla sul muro con un grosso pennello da imbianchino. Uno, due,
tre, quattro, fino a dieci manifesti in fila e un’altra mano di
colla sopra. Ci facciamo tutta via Calatafimi, dove sabato ci sarà
la fiera di Senigaglia, poi piazza Sant’Eustorgio, corso di Porta
Ticinese, le Colonne, il Carrobbio, i negozi di dischi, un paio di
locali e la birreria sul Naviglio dove lavora Lora. Con gli ultimi
volantini tappezziamo il muro di fronte all’Università Statale.
A lavoro
finito, passata l’ultima pennellata, il manico del secchio si
rompe, il secchio cade e la colla va a terra. Nucleo fa un salto
indietro ma non riesce a evitare gli schizzi e si ritrova con un
anfibio nella pozza densa.
«Cazzo!»
«Tu in
macchina così non ci sali. Mio padre ha messo i tappetini nuovi due
mesi fa.»
Di fronte
c’è un drago verde, una delle numerose fontanelle della città.
Buttiamo il
pennello e i resti del secchio nel cestino, mentre Nucleo si lava
l’anfibio.
«Be’,
comunque è andata bene. La madama non si è vista proprio» dice
Nucleo con un piede nella conca della fontanella.
Malox
parcheggia la macchina di fronte, Nucleo si lava le mani, Titillo
piscia su un muretto. Malox scende, si accende una sigaretta. Criss
mette le gambe fuori dall’auto e io vedo tutta la scena tingersi di
blu. Una macchina dei carabinieri si ferma. Un faro bianco ci
illumina a giorno. Il lampeggiante crea ombre bluastre a
intermittenza.
«Ecco»
mormora Criss dal sedile posteriore. «Li hai chiamati.»
Il caramba
scende impugnando una grossa torcia e ci viene incontro.
«Favorite i
documenti. Anche voi signorine. Qualcuno ha dei
precedenti?»
Il caramba si abbassa a guardare dentro l’abitacolo tenendo la
visiera con due dita.
Segue un
unico unisono: «No».
«Non è un
po’ tardi per andare in giro? A quest’ora chi può se ne sta a
letto a dormire.»
Il caramba
guarda di nuovo dentro la macchina mentre raccoglie le nostre carte
d’identità e aggiunge: «Volete scendere dall’auto?».
Si avvicina
il caramba numero due impugnando la sua torcia elettrica, mentre
l’altro torna a bordo della gazzella per recitare i nostri nomi e
cognomi nel microfono della radio. Siamo tutti e cinque lì in fila
uno di fianco all’altro sul marciapiede. Lo sbirro perlustra ogni
angolo della macchina illuminando anche i posti più impensati. Poi
punta la torcia su un pacchetto di sigarette, uno di fazzolettini di
carta, una scatolina sospetta contenente confetti alla menta, una
bustina trasparente con della polverina bianca, un bigliet... La
torcia torna indietro e fa luce nuovamente sulla busta contenente un
dito di colla da parati. Con aria soddisfatta il caramba la prende
tra indice e medio. Si raddrizza, si gira verso di noi con un
sorrisetto pirla.
«E questa
che cos’è!»
«È colla
da parati» gli risponde pronta Criss.
«E adesso
lo vediamo se è colla da parati... signorina.»
Apre la
bustina e immerge l’indice tra i cristalli.
Capiamo le
sue intenzioni e dopo un rapido giro di sguardi tra l’ironico e
l’allibito, non resisto e con una smorfia di disgusto esclamo:
«Nooo! Che schifo!».
«E adesso
lo vediamo se fa così schifo, eh» risponde sprezzante e certo di
quello che troverà mentre estrae il dito imbiancato. Mi guarda
impassibile e tronfio.
«Vuole
insegnarmi il lavoro?» e si schiaffa il dito in bocca.
La reazione
è immediata. Sputa e impreca.
«Cosa avevo
detto?» mormora Criss.
A questo
punto si incazza.
«Andiamo,
mani al muro!»
Arriva il
carabiniere numero uno che vede il numero due bere e sputare al drago
verde e noi cinque schierati al muro del pianto.
«Che sta
succedendo? E questa cos’è?»
Nucleo mi
sussurra: «Mi sa che devo fare una nuova serie di vignette».
All’altro
orecchio Criss ridacchia: «Vuoi vedere che l’assaggia anche lui?».
«È colla!»
dice il caramba numero due.
Numero uno
soppesa i documenti con occhi di fuoco.
«Cosa ci
fate in giro con della colla? Avete fatto qualcosa stanotte?»
Si butta di
nuovo in auto alla ricerca di prove del crimine.
Malox ha la
risposta pronta: «Faccio il tappezziere».
«E si porta
in giro il lavoro o stanotte avete fatto qualche lavoretto extra?»
replica il caramba numero uno uscendo dalla nostra macchina e
guardando i muri attorno.
«Io lavoro
solo di giorno e la sera mi distraggo.»
«Zitto e
risponda solo se interrogato.»
Per fortuna
non abbiamo più niente, tutte le tracce si sono dissolte nel cestino
dei rifiuti e l’ultima striscia di manifesti è
troppo
lontana! Il caramba numero uno apre la prima carta
d’identità.
«Chi è
Piero Turelli?»
Nucleo alza
il braccio.
«Tenga.»
Nucleo si
stacca dal muro e prende la sua carta d’identità.
Ci
avviciniamo tutti e quello si incazza.
«Vi ho
detto di muovervi? Ve lo dico io quando vi potete spostare. Cristina
Peregalli... Marta Curti. Ci prendiamo i documenti e il cazziatone:
«Signorine! Alla vostra età si pensa a farsi una famiglia. Non si
sta in giro fino alle tre del mattino in compagnia di teppisti. Vero
signor Sammarzano? Scappare di casa e rubare motorini non è
normale.»
Titilo si
stacca dal muro.
«Quando i
carabinieri le chiedono se ha dei precedenti lei deve dire di sì.»
È il turno
di Malox.
«Signor
Mezzofanti. Comunque ritorni com’era in questa foto. Glielo
consiglio. Sa... l’aspetto vuol dire molto.»
Ognuno
rimette a posto la sua carta d’identità in silenzio e risaliamo in
macchina, non prima di un ultimo consiglio: «La notte è fatta per
dormire, non per bighellonare. E domani buttate quegli stracci e
tutta quella chincaglieria e sistematevi i capelli».
Ci avviamo
verso via Larga, i caramba ci seguono fino al semaforo poi loro
svoltano verso il Verziere.
«Mavvaffanculo!
Sbirri di merda!» ringhia Malox.
«Che
coglione!» dice Criss scuotendo la testa.
«Come cazzo
si fa!» risponde Nucleo.
«Che
deficiente!» dice Titillo seduto in mezzo tra me e Criss.
Ci voltiamo
tutti a guardarlo, Malox dal retrovisore gli dice:
«Com’è
la storia? Scappavi di casa e rubavi motorini? Ah ah».
«Be’...»
dice Criss. «Comunque è andata. Con la figura di merda che ha fatto
quel coglione, ho pensato che prima di un’ora non ci avrebbero
lasciato andare. E meno male che avevamo
buttato via
tutto.»
«Ci
fermiamo al bar Jula?»
Sono le
quattro e quaranta. A quest’ora è l’unico rifugio.
Passiamo
davanti al teatro Lirico, facciamo la curva e parcheggiamo davanti al
bar. Dalla vetrina fumè si intuisce l’atmosfera da pianobar.
Entriamo uno alla volta e, per una manciata di secondi, si
interrompono le attività del locale. La luce soffusa non induce a
indagare troppo sulle varie anime che popolano questo scorcio di
notte. Se alle quattro del mattino ti trovi in un bar equivoco, tra
balordi e puttane, fai parte di quel pezzo di città che non corre in
ufficio, non porta i figli a scuola e non va a messa in Duomo.
Una voce
maschile dal marcato accento campano rompe il silenzio dal fondo
della sala.
«Eccheè! È
arrivat o’ carnevale!»
Una donna
ride sguaiatamente. Un’altra vicino a noi riprende a sorseggiare il
suo cocktail in bilico sullo sgabello accavallando le gambe a
prosciutto. Un travestito ondeggia su tacchi vertiginosi davanti a
due uomini che ridono e fanno battute, ma non sono interessati a noi.
Uno le poggia la mano sul culo che sporge dalla minigonna inguinale.
Lui si ferma spostando il peso del corpo sul tacco destro irrigidendo
il gluteo in questione e si passa la lingua mignotta sul labbro
superiore.
Al banco un
uomo fa tintinnare contro il vetro di un bicchiere un grosso anello
d’oro che brilla sotto i faretti del bancone. I capelli lucidi
scivolano all’indietro. Dalla camicia aperta, piccoli colpi di luce
partono dalle grosse maglie di una catenazza d’oro con un cristo in
croce che affonda sconsolato nei peli crespi del petto.
Sul bancone
una grande coppa di vetro contiene Fragole allo champagne che un
cartellino propone a 5.000 lire a coppa.
Un paio di
puttane ridono con alcuni uomini. Ci lanciano delle occhiate veloci e
poi si scambiano qualche battuta.
«Cinque
caffè» ordina Malox al barista dalla faccia giallastra e
inespressiva.
«Cosa dite
se passiamo dal panettiere in Brera?» propone Criss.
«Non si può
più. Gli hanno fatto un’altro multone pesante e fine della storia»
ci spiega Nucleo.
«Allora
andiamo da quello di Baggio.»
«Ma siete
di Baggio?» dice il sospetto epatitico mentre ci serve i caffè.
«Sì»
risponde Nucleo sospettoso.
«Io sono
nato alle cascine di via Sgambati, sotto il campanile della chiesa
vecchia.»
«Allora
deve essere tanto che non ci abiti più» gli dico.
«Sono
andato via quarant’anni fa e non ci sono più tornato.»
«Non ti
farebbe piacere vedere come è ridotto il quartiere.»
Dal fondo
della sala la stessa voce di poco prima.
«Uiii,
belll ... Va a Bagg’ a sonà l’organ!» E ride divertito per
questa famosa battuta su Baggio.
Vista
l’ilarità e le attenzioni che stiamo suscitando nel panzone
strafatto preferiamo portare i nostri culi sui sedili della macchina
e tornare a Bagg’.
TREDICESIMO
Buzzcoks Exploited
La musica
pompa di brutto. La pedana lancia sbuffi di terra. Saltano tutti, uno
addosso all’altro, in un pogo generale. Nucleo riconosce il pezzo
fin dalle prime battute ed esce di corsa dal banco anguria
trascinando gli anfibi nella polvere al ritmo di Rock the Casbah,
proprio come Joe Strummer nel video, il ritmo esplode con California
Über Alles e White Riot e poi tutti con il pugno in alto a scandire
Alternative Ulster degli Stiff Little Fingers!
Lora e il
folletto soprannominato Peterpank, si urtano con le braccia raccolte,
si danno delle spallate
bestiali,
fino a quando vedo schizzare Lora che si schianta a terra a un dito
dal mio piede. Peterpank la raccoglie, lei lo guarda e al grido di
banzai gli si butta contro con tutta la forza che ha in corpo.
Finiscono addosso a un blocco umano che smette di saltare, barcollano
e cercano appigli nel vuoto, ma finiscono un’altra volta a terra. A
quel punto i Killing Joke cantano Wardance e tutti si buttano nel
mucchio. Gambe braccia creste anfibi teste grida soffocate e urla
animalesche in una mischia
degna di una
partita di football americano. Appena partono gli Stranglers
raggiungo la pedana in tempo per alzare i pugni al cielo gridando No
more heroes anymore, No more heroes anymore.
Roberto
della sala prove spippola sul mixer agitandosi mentre cambia i
dischi. Franz salta e si agita insieme a me. Le magliette iniziano a
volare. Gocce di sudore scendono lungo le schiene. Non è difficile
uscire dalla mischia, basta scivolare tra i corpi viscidi. Passando
tra un torace fradicio e l’altro io e Franz veniamo partoriti dalla
massa vischiosa e arriviamo al bar. Pino è seduto in disparte.
Osserva Elena che sta flirtando con uno mai visto prima. Dal mixer
partono i Buzzcocks:
You spurn my
natural emotions
Pino ringhia
a bassa voce tra i denti: «Stronza, guarda come mi hai ridotto».
You make me
feel like dirt, and I’m hurt
«Mi hai
fatto a pezzi...»
I run the
risk of losing you
«Sei solo
una grande stronza!»
Even fallen
love with someone... even fallen love
Alla fine
della canzone, Pino s’ingurgita l’ennesimo cocktail.
«Non stai
esagerando?» dice Titillo. «Non è che sbocchi ancora?»
«Fatti i
cazzi tuoi.»
«E tu
finiscila di farti le seghe mentali. Che cazzo c’hai. Sei più nero
del solito.»
«Ma sì,
guarda, forse è meglio così. Ho fatto di tutto per evitarlo ma a
questo punto... Così mi tolgo da questa città di merda!» Pino
estrae dalla tasca dei pantaloni un cartoncino rosa stropicciato.
«Nooo!
Quando ti è arrivata?»
«La
settimana scorsa. Prima volevo bruciarla e ho pensato di scappare
all’estero. Ma grazie a quella stronza ho deciso di partire per la
naja.»
«Ma non
avevi fatto la domanda di obiezione?»
«Certo ma è
stata respinta per quella rissa, ti ricordi?» Pino indica la
cicatrice sul sopracciglio. «E poi sarei dovuto rimanere lo stesso
in divisa e in caserma.»
«Cazzo. Sei
proprio fottuto. Ma non avevi uno zio che poteva farti riformare?»
«Come no.
Alla visita dei tre giorni sembrava non ci fossero problemi,
invece... Grazie zio. Guarda...» Sulla cartolina è stampata la
destinazione: 14° battaglione bersaglieri Sernaglia- Albenga.»
«Cazzo.»
La musica si
interrompe, partono fischi e insulti. Nucleo è salito sul palco,
accanto al mixer, prende il microfono.
«Ho due
cose da dirvi. La prima è che questa festa serve a raccogliere un
po’ di soldi per continuare a fare concerti e mantenere attivo lo
spazio. È importante che continuiamo a lavorare e a proporre
iniziative. In queste due settimane abbiamo visto un sacco di gente,
anche del quartiere.»
Titillo si
alza di scatto e corre verso il palco, sale a fianco di Roberto e gli
sussurra qualcosa, inizia a cercare tra i dischi, ne prende uno, lo
mette sul piatto. Intanto l’intervento di Nucleo prosegue.
«Rinnoviamo a tutti l’invito a partecipare alle attività di
questo spazio. Poi stiamo raccogliendo fondi per un progetto
editoriale, una rivista. Chi vuole può lasciare qualche spicciolo al
bar.»
Titillo si
avvicina a Nucleo, gli dice qualcosa all’orecchio e lui riprende a
parlare nel microfono.
«E poi ho
una vera notizia di merda. Pino parte per il militare.»
Un larsen
squarcia l’aria dalle casse e copre urla e fischi.
You never
give up the army... GO!
Join the
army at seventeen two years later
You’re
killing machine...
Tutti
saltano e urlano e poi in coro con il dito medio in alto.
Army life
killing me... Army life killing me...
Per quanto
mi stiano sul cazzo questi rozzi maschilisti degli Exploited il pezzo
è azzeccato.
Titillo
corre da Pino che è rimasto al suo posto, con la carto-
lina in
mano. Lora gli si è seduta accanto sconsolata e gli tiene
un braccio
sulla spalla.
«Eccheccazzo
però!» gli urla Titillo. «Datti una mossa!»
Lo prende di
peso, lo alza, ma Pino gli molla uno spintone per allontanarlo.
Titillo
quasi cade per terra. Pino ha la faccia contratta. Elena ha seguito
tutta la scena da dietro il banco del bar e ora sta per andare a
consolarlo.
«Lascialo
stare» le intima Criss poco distante. «Prima o poi gli passa.»
Pino si fa
largo fra toraci lucidi e facce imperlate di sudore, le magliette
infilate nella cinta penzolano fino all’incavo delle ginocchia,
urta contro chiunque sia sul suo cammino, come se
non vedesse
altro che il vuoto che lo scava dentro. Elena si stacca dal bar, si
mette sulla sua scia. Criss la prende per un braccio. La ferma. La
guarda male e dal movimento delle labbra, quasi serrate, capisco che
le sta dicendo di non intervenire.
Elena si
libera con uno strattone. Restano a guardarsi in silenzio cariche di
rabbia. Ma intanto Pino ha fatto in tempo ad andare via.
Hey ho,
let’s go! Hey ho, let’s go! Ora sono partiti i Ramones. Franz mi
raggiunge, mi prende per la vita, mi fa girare. Lo guardo e mi tira a
sé, mi lancia e mi riprende, mi trattiene, resto sospesa sulle punte
dei piedi e sento il suo respiro. Poi solo labbra soffici e sapore di
lago sulla lingua morbida.
La musica ci
trasporta a ballare avvolti dall’afa. Che serata!
Un po’
alla volta i primi pogatori se ne vanno. Rupaz e Nucleo sbaraccano le
rispettive postazioni, Elena e Criss tirano le somme al bar. Qualcuno
è sdraiato in fondo alla serra e dorme pesantemente nonostante il
casino. Poi la musica si spegne. Nel giro di un paio d’ore lasciamo
i morti oltre il muro del cimitero, i moribondi sparsi qua e là e
quelli che si preparano per la notte nella stanzetta sul retro del
bar. Anche gli ultimi sconvolti ubriachi iniziano a mollare e se ne
vanno. Io e Franz
ci avviamo
abbracciati nella notte mentre i lampi illuminano il cielo oltre la
tangenziale.
QUATTORDICESIMO
Possiamo
andare in tipografia a trattare sul prezzo. Sedici pagine belle
pronte da mandare al tipografo che ci ha consigliato di stampare
almeno mille copie, perché il costodell’avviamento è quello che
incide di più.
«Quanto
tempo ci vuole?» chiede Titillo.
«Un paio di
settimane se portate l’impaginato entro venerdì.»
«Va bene,
Possiamo consegnare il lavoro dopodomani. No?» mi chiede Criss.
Rapido giro
di okay che vuol dire domani ripasso generale e consegna.
«Cazzo! Chi
l’avrebbe detto. Una macchina da scrivere, colla e forbici.
Incredibile» dice Criss.
«La tecnica
senza la testa non vale un cazzo» rimbalza Sandra.
È l’energia
che sta girando in questo periodo. Tutti fanno qualcosa. Ogni cosa
sembra così facile. Anche Titillo sente il clima caldo, e non solo
perché siamo a luglio.
«Non ho mai
visto tanta gente così entusiasta e attiva come negli ultimi mesi.
Sembra un contagio. All’improvviso in questa città di merda è
successo qualcosa.»
«La prova
generale sarà quando avremo le copie in mano.
Cesco mi ha
detto che anche la sua fanza è esaurita. Vedremo se sarà così
anche per “Fame”!»
«Appena
ritiriamo le copie dobbiamo organizzare subito la presentazione in
serra» risponde Sandra con la sua dose di saggezza e senso pratico.
«Abbiamo due settimane abbondanti. Direi che l’ultimo sabato del
mese potrebbe andare. Poi partono tutti.»
«Non tutti»
mormora Titillo laconico.
«Vorrà
dire che avrai tutto agosto per vendere un po’ di copie a chi
resta» ride Franz.
«Ma non sei
nel gruppo vacanze Berlino?» gli chiedo.
«È in
forse. Sto aspettando anch’io la cartolina.»
«Cooosa?»
gli dice Criss.
«Devo
andare in caserma e vedere se mi riesce il rinvio.»
«Ma tu non
sei figlio unico di ragazza madre?»
«Lo ero.»
«Come
sarebbe lo ero?» gli chiede Sandra tra l’incredulo e il divertito.
«Hanno
fatto casino al distretto e non lo sono più. Adesso sembra che sono
diventato un altro.»
«Sono
completamente brasati. Ma ti stai sbattendo da solo?
Non hai
sentito un legale o un checcazzo ne so che si occupa di ’ste
rogne?»
«Ho tutto
sotto controllo» dice Titillo poco convinto. «Almeno mi sembra.»
(...)
«Allora
dove andiamo quest’estate? Nella piscina gonfiabile di Criss o
portiamo il culo a Berlino?» ci chiede Titillo.
«Per il
treno ci penso io» aggiunge Malox, il genio della contraffazione ci
spiega che farà i biglietti tarocchi per tutti.
«È molto
semplice, tu vai in stazione e compri un biglietto internazionale che
si chiama Bige, con paghi 3.000 lire e ti danno questi fogli tipo
assegni con scritto a penna Chiasso. Poi a casa, piano, piano con la
scolorina cancelli Chiasso e ci metti Berlino.»
«Ma vaiii!»
ulula Titillo. «Quando si parte?»
«Bene»
giusto perché diventi l’interrogativo dell’estate, anche Sandra
fa la grande domanda: «Allora? Berlino?».
Guardo Criss
cercando certezze ma lei ancora non sa.
«Boh. Ho
appena preso la casa in affitto e se non trovo un,po’ di soldi mi
sa che me ne starò in giardino.»
«Se ti va
di inchiodare cantinelle per i telai dei fondali posso chiedere se il
capo ti prende a lavorare.»
Mentre
prende una birra, Malox dice: «Allora, quando decidete ditemelo che
vado in biglietteria, destinazione Berlino via Chiasso, Ah! Ah!».
«Del resto
da lassù arrivano notizie di occupazioni toste.»
«Berlino?
Anch’io, anch’io!» Anche Peterpank è stato contagiato. «Posso
venire a lavorare anch’io con voi?» dice aggiungendo un rutto
implorante. «Vi prrrreauugo!»
«Mi sembra
di capire che quest’estate si va a Berlino.» È arrivato anche
Franz. Mi guarda in attesa di consenso.
«Be’,
certo. Ormai abbiamo deciso di trasferirci in blocco.»
Insieme a
lui c’è un tipo magro alto con i capelli biondi alle spalle,
leggermente mossi, occhi azzurri. Indossa una salopette.
Salopette,
Clark, capelli lunghi. Da dove arriva, dall’Arci? penso.
«Ti voglio
presentare Ziggy» Franz mi indica il tizio biondo.
«Lei è
Marta.» Lui sorride guardandomi un po’ imbarazzato.
«Ho
conosciuto Ziggy alla sezione di Democrazia Proletaria quando ho
iniziato a fare politica al liceo.»
Ah, ecco! E
ci deve essere rimasto, in Dp, penso in silenzio.
«Sì, però
poi Franz ha mollato e ha lasciato a me l’impegno in sezione» ride
Ziggy.
«Perché
Ziggy?» gli chiedo, che a parte l’abbigliamento da reduce, non è
male.
«Perché da
ragazzino ho tormentato il mondo con Bowie!
Ma adesso ho
allargato gli orizzonti. E poi basta con questo nomignolo. Il mio
nome è Marco.»
«Ok,
Marco.»
«L’ho
erudito io» dice Franz. «Adesso ascolta Siouxsie, Bauhaus e Joy
Division. Vero? Non sono ancora riuscito a fargli mollare la
salopette e la kefia ma con il tempo, magari...»
«Non
esagerare. Vabbè che noi di Dp siamo un po’ dinosauri, ma ho pur
sempre vent’anni e anche a me un’avventura a Berlino non
dispiacerebbe!
«Sì,
quest’anno ci vuole qualcosa di rilassante. L’anno scorso ci
siamo fatti le vacanze militanti alternative in Ulster. Cazzo!
Tiricordi quando ci hanno perquisito in quella merda di caserma
inglese a Belfast?» dice ridendo Franz a Marco, che recupera dal
passato un’espressione di vera paura.
«Come posso
dimenticarlo. Mi sto ancora cagando sotto. Ho pensato che neanche il
consolato ci avrebbe potuto tirar fuori da quel casino.»
Raccontano i
dettagli di un storia allucinante. Lasciati nudi e soli in una cella
per diverse ore. Picchiati a diverse riprese e a ognuno dicevano che
l’altro aveva confessato. Avevano le loro foto quando erano in
Falls Road, a Ballymurphy, durante una manifestazione fuori dal
carcere di Long Cash, quello dove continuava lo sciopero della fame
che aveva ucciso Bobby Sands e gli altri. Volevano sapere da loro
perché fossero andati a prendere contatti con l’Inla, se erano
delle Brigate Rosse, chi li aveva mandati a casa di O’Connely e
altre domande e nomi che non sapevano nemmeno cosa volessero dire.
«Avevamo
avuto la sensazione di essere seguiti dal momento che eravamo scesi
dal traghetto. Però ci sembrava strano. Che cazzo potevano volere da
noi? Poi quando mi sono visto nelle foto, mi sono spaventato di
brutto. Ho pensato che se riuscivo a tornare in Italia appena vedevo
il compagno che mi aveva dato i contatti per raccogliere il materiale
informativo a Belfast lo avrei impalato. Doveva essere tutto
tranquillo, invece O’Connely, il tizio che ci ospitava a Belfast,
era uno del Sinn Fein, ma di notte faceva le azioni con l’Ira.
Quando mi hanno fatto vedere la sua foto nel picchetto al funerale di
Bobby Sand ho pensato che da lì non sarei più uscito» ride Marco,
ma la sua espressione è vagamente intrisa di tensione. Raccontano i
loro dieci giorni a Belfast e mentre li ascolto capisco la loro
amicizia profonda. Sono così diversi ma così incredibilmente
vicini, probabilmente è la stessa impressione che facciamo io e
Criss da quando siamo diventate invincibili.
QUINDICESIMO
Nucleo
scarica i pacchi dall’auto di Rupaz aiutato da Franz e da Marco
davanti al portoncino di Criss. La tipografia ha finito il lavoro
stamattina con abbondante anticipo. Mille copie da sedici pagine.
Odorano forte. Inchiostro nero, denso.
Sedute al
tavolo del giardino io, Criss e Sandra aspettiamo. Siamo emozionate.
Il nostro primo figlio collettivo, un pezzo di ognuno di noi. Nucleo
entra dal portone con una copia in
mano, avanza
lentamente, sfogliando e sogghignando.
«Dai non
fare il pirla! Muoviti!» urla Criss.
Franz ride
tenendo i pacchi tra le braccia seguito da Marco.
Li
depositano sul tavolo.
«Signore...
Prego!» dice Marco tagliando la fascetta del pacco.
Sandra
prende una copia. La tiene ferma davanti a sé. Criss a destra io a
sinistra. Silenzio. E così restiamo. In contemplazione della
copertina con la foto in cui Nucleo, Titillo, Rupaz e io, stazioniamo
sotto un muro con la scritta FAME.
«Beeello»
dice Criss ammirata.
La guardo
annuendo.
Franz prende
la sua copia e inizia a sfogliare.
Adesso anche
io e Criss sfliliamo la nostra dal pacco. L’odore dell’inchiostro
si sprigiona. Lentamente. Una pagina alla volta. Guardiamo tra le
righe alla ricerca di qualche mistero che per
una strana
alchimia la stampa possa ora rivelarci. Sfogliamo la presentazione,
il fumetto, le vignette di Nucleo, le lettere dal carcere,
l’intervista al poeta della Latteraria.
«Abbiamo
fatto una figata!»
«Consegnate
in tempo per il concerto di questa sera al parco delle Basiliche.
Tenuta a battesimo da Siouxsie and The Banshees e da Echo & The
Bunnymen che suonano gratis!>
(…)
Marco
aspetta questo concerto da mesi. Approvo il suo entusiasmo e teniamo
testa agli integralisti del suono duro, Malox e Nucleo, che non ne
vogliono sapere.
«Però è
l’occasione giusta per vendere la fanza!» ribatte subito Sandra.
Io e Criss
ci facciamo largo tra la folla, insieme a Marco che non sta nella
pelle, sullo spelacchiato e polveroso prato dietro a Sant’Eustorgio.
Per noi due è molto di più di un concerto gratis in una sera di
calda estate. È un evento di cui abbiamo bisogno per nutrire le
nostre anime. Noi che abbiamo definitivamente seppellito il punk la
sera del 3 maggio sotto il palco dell’Odissea 2001 durante il
concerto dei Bauhaus. Entrando avevamo sfidato gli insulti e le urla
e il volantinaggio dei pun-
kintegralisti.
Non che non fossimo d’accordo a contestare le 6.000 lire per
l’ingresso. Ma di fronte ai Bauhuas l’ideologia si era nascosta
dietro l’angolo delle nostre coscienze. Avevamo fatto l’orazione
funebre del punk mentre Pete Murphy travolto dagli sputi, dopo aver
ripetuto più volte «Don’t speet», faceva roteare il microfono
per lanciarlo con violenza sulle teste degli sputatori.
Bela
Lugosi’s dead
Ci eravamo
guardate io e Criss realizzando improvvisamente che il punk era
morto, passato ad altra vita di fronte al suono cupo e tenebroso dei
Bauhaus.
Punk is
dead!
Così lo
avevamo accompagnato e sepolto con questo mantra.
Senza
dimenticarlo.
Bela
Lugosi’s dead!
Il concerto
al parco delle Basiliche è aperto dagli Echo & The Bunnymen, a
me piacciono un sacco anche se sono in molti a snobbarli. Ma
tocchiamo il cielo quando Siouxsie parte con Israel. Sotto al palco
saltiamo e balliamo felici. Per questa sera lei è la nostra dea.
Andiamo in visibilio quando attacca con Happy House e poi Voodoo
Dolly. Da questa sera decido che lascerò crescere un po’ i capelli
per poterli cotonare e tenerli gonfi a criniera. Marco è in estasi.
Ci ha svelato il suo amore segreto confessandoci di aver consumato i
solchi dei suoi dischi.
Nella sua
salopette a righine con lo zainetto che ballonzola sulla schiena
gravato dal peso delle copie di “Fame”, salta felice insieme a
Franz che ci ha raggiunto.
Alla fine
del concerto ci scateniamo ognuno con la sua mazzetta di copie.
“Fame” inizia a circolare. Nucleo finisce la sua in poco più di
un quarto d’ora. Ben presto gli zainetti sono vuoti. Io e Criss
spieghiamo brevemente di cosa si tratta a chi si ferma incuriosito e
che poi sgancia le 1.000 lire con entusiasmo.
Anche Marco
e Franz finiscono in fretta le loro copie. Siamo increduli ma abbiamo
venduto centotrenta “Fame”,preso contatti per chi ha qualcosa da
darci per collaborare,
promesso il
conto vendita a due negozi di dischi e tre librerie.
SEDICESIMO
Colletta e
doppia spedizione. Posteria per la cena e Stenlio per un bottiglione
di Negroni.
«Siamo
sicuri che non serve il passaporto? Non è che poi arriviamo là e
non ci fanno passare? No, dico, è la Ddr!» si preoccupa Criss.
«E che
cos’è la dedeer?» chiede Lora.
«Minchia ma
quanto sei ignorante!» l’aggredisce immediatamente Nucleo.
«La
Repubblica democratica tedesca, la Germania dell’Est!
Quella dei
comunisti che mangiano i bambini!»
«Chissà
perché la chiamano democratica se di democratico non c’ha un
cazzo! Ma poi scusa dovrebbe essere...» Lora ci pensa un attimo
muove la bocca e alza tre dita «Rdt!» poi lecca la colla della
cartina e finisce di rollare la canna.
«Ddr! È
tedesco... Sareb...»
«E fatela
finita! Mi state facendo esplodere il cervello!» dice Malox.
«Perché?
Com’è la storia? Cosa c’entra la Germania dell’Est?
Ma non
andiamo a Berlino?» chiede Peterpank.
«Eh,
appunto» chiarisce Sandra. «Berlino è in Germania Est.»
«Ma come...
C’è Berlino Ovest e Berlino Est. Non è divisa in due da un muro?»
«Sì, ma
Berlino Ovest... Cioè, Berlino è nella Germania dell’Est, solo
che una parte, quella circondata dal muro, è sotto controllo della
Germania Ovest. Tipo San Marino!»
«Ma va? Io
credevo che era sul confine, metà di qua e metà di là!» dice Lora
accendendo lo spinello.
«Anch’io
non sapevo che Berlino era dentro all’Est, credevo che il muro
divideva a metà la città e le due Germanie» dice Peterpank.
«Ma voi una
cazzo di cartina geografica l’avete mai guardata?» continua Nucleo
grugnendo.
«E un
bigino di storia?» fa l’ironica Sandra.
«Certo che
tra storia e geografia siete messi bene!» aggiunge Criss.
«Che pozzi
di scienza!»
«Comunque
tutto regolare. Basta la carta d’identità e poi fanno un permesso
temporaneo al confine con l’Est.»
Malox mette
una mazzetta di cartoncini azzurrognoli sul tavolo: «Ecco i nostri
biglietti freschi freschi di tarocco!».
«Ma come
hai fatto?» chiede una Lora in estasi guardando il biglietto in
trasparenza.
«Con la
scolorina e la bravura» gongola Malox.
«Non è che
ci hai ruttato sopra per scolorarlo?»
In quel
momento entrano anche Franz, Marco e Titillo, si mettono a
controllare uno a uno i biglietti.
Adesso ci
siamo tutti: io, Criss, Franz, Marco, Malox, Sandra, Nucleo, Titillo,
Peterpank e Lora.
(...)
Cazzo!
Berlino!
Berlino è
un grande immenso fottutissimo zoo.
«Dov’è
Christiane F.?»
«Christiane
suona in un gruppo punk e sta con il tizio di una band di roba bella
pesa tipo postpunk industriale.»
«Si chiama
Blixa Bargeld, Einstürzende Neubauten e fa ilbarista al Risiko»
dice disinvolto Franz.
«Che cazzo
hai bestemmiato?» ride Nucleo.
«Voi siete
arcaici e siete rimasti al punk due accordi e quattro urla!»
«Tu invece
ti sei evoluto!» precisa Titillo.
Il quartiere
Kreuzberg è un grande luna park alternativo: ovunque case occupate,
club e musica. Siamo storditi e travolti da questa energia.
Oranienstrasse
e dintorni sono un trionfo di bar, birrerie, locali alternativi,
bivacchi, squat, strati di manifesti alle pareti, graffiti, murali,
punk e gente simile. (…)
Su gran
parte della città l’odore della guerra è ancora lì. Puzzo di
occupazione militare. Di terra, polvere e sangue rappreso. Di guerra
fredda. Spionaggio, controspionaggio e dossier segreti su ogni
singolo cittadino. Grandi cartelli avvertono costantemente in quale
settore della città ci troviamo. Marco e Franz ne sono
impressionati. Se non fosse per i forzati che ci vivono, Berlino
Ovest sarebbe solo un avamposto militare. Petra ci spiega che lo
stato elargisce varie forme di incentivi affinché la città non
venga abbandonata. Come esentare dal servizio di leva chi si
trasferisce a vivere qui. Forse è anche per questo che ci sono un
sacco di bar discoteche e locali notturni. Il premio per
anestetizzare o gratificare. Dipende dai punti di vista, dai gusti e
dai ruoli. Ognuno ha il
suo. Punk,
alternativi, fricchettoni, autonomen.
Da evitare
accuratamente molti dei locali e discoteche del centro che sono
frequentati da mandrie di militari americani sempre ubriachi e in
cerca di risse, tanto che i taxi hanno i sedili incellophanati per
difendersi dalle inevitabili conseguenze dell’esuberanza yankee.
Arroganti zotici al testosterone, aggressivi e stupidi agglomerati di
muscoli a stelle e strisce. Peterpank e Nucleo ringhiano ogni volta
che ne incontriamo qualcuno.
«Ma che
cazzata è questo muro!» riflette ad alta voce Peterpank appena ci
siamo sotto.
«È una
roba che scavalchi in un due salti!» continua Malox anche lui
stupito dell’altezza.
«Prova a
dirlo a quelli dell’altra parte che sono più di vent’an ni che
vorrebbero riuscirci!» risponde dura Sandra.
Anche la
delusione di Nucleo è esplicita.
«Io mi
aspettavo una roba tipo grande muraglia. Non una cosa del genere, non
saranno manco quattro metri! Sono più alti i muri delle ville di San
Siro.»
«Me lo ero
sempre immaginato più alto anch’io» dice Franz. (…)
Saliamo
sulla piattaforma fatta apposta per guardare di là. Un cartello poco
distante avverte la fine del settore americano e l’inizio di quello
francese. Intanto qualche turista prova a farci delle foto ma
Titillo, truce terrorista punk mediorientale, li mette in fuga
chiedendo i soldi per lo scatto.
Oltre al
muro c’è la terra di nessuno e le torrette con i Vopos di guardia.
Tra i cavalli di frisia scorrazzano bande di conigli selvatici.
Oltre, un altro muro, parallelo a quello che abbiamo davanti,
delimita Berlino Est. Di là, in quell’altra città, una curva
della lunga muraglia grigia ci permette di vedere le strade
lastricate di porfido, qualche rara Trabant, i caseggiati tetri.
Tutto è
rimasto come la mattina del 13 agosto 1961.
«Di qua o
di là sei lo stesso in gabbia» dice Lora triste.
DICIASSETTESIMO
(Bela Lugosi’s dead A forest
Dall’altra
parte del vialone semideserto, perché anche a Berlino è agosto e i
residenti hanno qualche motivo per andare altrove, della musica esce
da una specie di bocca sull’inferno.
«A me è
venuta voglia di andare a ballare!» dice Titillo.
«Anche a
me» lo segue Lora.
BASEMENT
lampeggia nel tubo al neon blu fluo. Due tizi truccatissimi con
enormi cotonature slinguano in un angolo strusciandosi. Entriamo e
scendiamo la scala per gli inferi. Sbuffi di fumo dalle pareti e
bella musica. L’ambiente è un nero postpunk apocalittico. La
musica è decisamente post, roba che qualcuno definisce da fighetti,
ma che a quanto pare fa fremere tutti tranne Nucleo che ci lascia per
un puntello con Petra in una casa occupata a ridosso del muro, non
prima di averci
ricopiato
l’indirizzo. Ci buttiamo a ballare e a bere della birra finalmente
migliore.
È solo
mezzanotte. È un po’ presto. Ci siamo solo noi e pochi altri ma è
meglio così, ci gustiamo i pezzi e balliamo con tutta la pista per
noi. Per stanotte non ci si ucciderà di pogo. L’amplificazione
diffonde un’inconfondibile batteria riverberata sulla quale il
nostro cuore, il mio e di Criss, si adegua al battito. Suoni secchi
si scompongono nell’eco. Un basso cupo gira su tre note e noi siamo
in estasi. Poi entra la chitarra, straziante, in un solo unico
accordo. Adesso le note ci dicono di aspettare ancora un po’ mentre
danziamo nell’attesa delle parole del nostro personale mantra che
puntuali arrivano al sesto giro di accordi.
White on
white translucent black caps / Back on the rack / Bela Lugosi’i
dead / Undead undead undead
Stiamo
fluttuando trasportate su lembi di nuvole, galleggiamo sul pavimento
verso il soffitto di specchietti e acciaio. Io e Criss una di fronte
all’altra. Incrociamo gli occhi azzurri di Marco sulla scia della
chitarra che ci fa scivolare verso il rullante, rimbalziamo tra le
pareti. Danza e pulsazioni a mille e siamo in tre sopraffatti dai
sensi, come fossimo a un baccanale, danzando come menadi un nuovo
ditirambo. Una specie di corrente magnetica fluttua e mi porta sempre
più vicino a Marco. Criss mi guarda interrogativa. È una cosa
privata, nostra e adesso stiamo galleggiando.
Il dj decide
che è ora di mixare e allora cadiamo tornando tra i vivi saltellando
su A forest dei Cure.
Poi, sulla
pista appare una ragazza bellissima, diafana, capelli blu elettrico,
che avanza ballando. I suoi movimenti si frammentano sotto la strobo.
Si avvicina pericolosamente a Titillo che quasi non ci crede. Lei lo
guarda socchiudendo la bocca e si abbassa leggermente, prima su una
gamba poi sull’altra, ruota su se stessa girando la testa di
traverso e ancora gli danza attorno. Lui poco plastico, ma tenendo
ben presente l’obiettivo, si dilunga in un rituale da balera
alternativa, mostrandosi in
evoluzioni
improbabili che ci fanno riunire in un piccolo pubblico bastardo che
commenta ogni passo e ogni suo sguardo.
Lora e
Peterpank gli si sono incollati ballando ed esasperando la stessa
danza rituale in una assurda comica.
La tipa si
avvicina ancora di più a Titillo.
«Nooo!»
esclama Criss
Le si
struscia addosso.
«Evvvai!»
Marco si mette a fare il tifo.
Titillo è
in una inedita versione iguana incurante delle nostre ola.
«Nooo gli
ha appoggiato le tette!!!» Criss alza le gambe ridendo e tira a se
Malox che mima Titillo nella versione lucertolone.
Franz
ritorna dal bagno incredulo.
«Ehi ma
avete visto quel coglione di Kebbabi? Sembra un attore porno!»
Passano due
minuti di contorsionismi hard e infine Titillo intreccia nell’aria
due spanne di lingua con la tipa.
«Ellammmadonna!»
esclama Marco affondando la faccia nella spalla di Franz in preda a
una risata incontenibile.
Sandra
arriva sudata e trafelata.
«Ehi, avete
visto Titillo? Ha cuccato alla grande!»
«Cosa credi
che stiamo facendo appollaiati su ’sti sgabelli?»
«Ma dove
sono spariti. Non li vedo più» dice Criss allungando il collo sopra
la pista ondeggiante.
«Si saranno
imboscati da qualche parte a trombare!» sostiene Malox che si butta
addosso a Criss e la trascina a ballare i Joy
Division.
Guardo Marco
e sussuro a Franz: «Bisogna intervenire sui riccioli d’oro di
Marco! Sembra davvero un vecchio fricchettone».
Mi avvicino
e gli urlo nell’orecchio: «Domani ti taglio i capelli!».
Marco ride,
si passa una mano in testa e annuisce scuotendo la chioma.
DICIOTTESIMO
Il rientro a
Milano è una metafora esistenziale. (…) Il logo Bocciofila i Due
Archi campeggia sullo sfondo arancio di magliette e cappellini.
Scarpe regolamentari e borsa per le bocce in pelle lucida con
medesima colorazione e identico logo. A 120 metri la bocciofila
rivale colorata di blu e giallo. La Racchettoni. Nucleo sorseggia
appoggiato alla balaustra mentre Stenlio e figlio continuano a
litigare con i pannelli.
«Ieri ho
incontrato Mimmo, il fratello di Pino. Pare che non se la passi molto
bene a naja» dice Rupaz.
«Non ne
avevo dubbi!»
«Prima di
tutto ha preso male la storia con Elena!» suggerisce Titillo che ci
raggiunge al tavolo sfoggiando uno stopposo biondo platino.
«Minchia!
Così sembri meno terrone!» lo sfotte Nucleo.
«Ma stai
benissimo Kebbabi!» fa Criss ridendo.
«Non dargli
retta sei fighissimo!» dico io.
«Lo so!»
«Perché
non andiamo a trovare Pino ad Albenga?» propongo.
«Un’estate
al mareee!» canta Titillo.
«Allora
tutti al mare?»
«Okay!»
«Va bene!»
«Ah... Una
fine estate al mareee? A trovare Pino? Portiamoci i sacchi a pelo e
tanta droga!» suggerisce il finto biondo.
Partiamo
venerdì pomeriggio con la macchina del fratello di Franz. Fuori
dalla caserma Piave restiamo un po’ a guardare il movimento intorno
alla grande apertura che dà su un piazzale polveroso e assolato.
Andirivieni di roba bellica e gente in grigioverde. Dal portone
schizzano fuori gruppetti di ragazzi in jeans e maglietta che
salutano il piantone immobile. Qualcuno convinto altri meno. Pino
arriva lentamente. Saluta portandosi la mano alla tempia. L’ultimo
obbligo per le prossime ore. È dimagrito o forse sono i pantaloni
stretti e la maglietta nera dei Joy Division che lo fanno deperito.
Ci saluta triste.
«Oh!» lo
strattona Criss.
«Non ti si
può lasciare per qualche settimana e già ti de- primi?»
«Fratello
fai paura!» aggiunge incoraggiante Titillo.
«Anche tu.
Che cazzo hai fatto ai capelli?» gli sta tornando il buonumore.
Titillo gli
tende la mano per il loro rito di stretta al polso, aggancio dita,
pollice e indice puntato.
«Adesso ti
dimentichi ’sta merda per qualche ora!» lo tira a sé e si
abbracciano.
Il sorriso
torna sul viso di Pino. Forse sta solo cercando di convincere tutti,
lui compreso. Non gli riesce benissimo, ma gli basta guardare più
nel dettaglio l’ossigenato che un guizzo di
vita gli
balena negli occhi.
«Okay!
Andiamo un po’ fuori dal cazzo! Banda di esauriti. Ma siamo in sei!
Come ci entriamo in macchina?»
«Con
Titillo nel bagagliaio no?» impone senza diritto di replica Nucleo
aprendo il portellone dell’auto.
«Ma no! Non
si respira la dentro! Poi soffro il mal d’auto e ci sono i sacchi a
pelo!»
«Non ti
preoccupare che l’aria passa e i sacchi a pelo ce li teniamo
davanti!»
«Che manica
di pirla!»
«Se ci
fermano dico che mi avete sequestrato! Cazzo!» sbuffa Titillo
rannicchiandosi nel bagagliaio.
Pino si
siede davanti con Franz e ci dirigiamo al campeggio sul mare dove
hanno dei bungalow a un prezzo ottimo.
«Figo! Non
ci sono mai stata!» dico.
«Ma va?»
mi sfotte Franz.
«No dico,
nel senso che non sono mai stata in un campeggio!»
«Ma dai!
Neanche da piccola in vacanza?»
«Ma va là!
I miei non avevano nemmeno i soldi per piangere!
In campagna
dalla nonna e in colonia a Pietra Ligure.»
«Nel
lager!» urla Titillo dal bagagliaio. «Ci sono stato anch’io!»
«C’è
qualche altro pezzente qua dentro?» esclamo ridendo.
«Io! Però
ero un pezzente un po’ di lusso perché mi sono fatto le colonie
dei ferrovieri che erano meglio delle altre!» ci spiega Nucleo.
Parcheggiamo
sotto una tettoia di cannucciato vicino a una siepe di oleandri.
Nucleo apre il cofano e Titillo schizza fuori.
«Luridi
bastardi di merda! Vi giuro eterna vendetta!» (...)
Fuori i
carruggi che ci fa percorrere Pino sono un salto indietro nel tempo.
Si susseguono le facciate dipinte delle case, le persiane aperte a
metà, il vociare nella via principale, il profumo di focaccia. In
una bottiglieria facciamo la spesa per la notte e torniamo sulla
spiaggia.
«Dopo il
giuramento chissà dove mi manderanno. Dicono che da qui in genere la
destinazione è il Friuli. Chissà. Adesso c’è pure ’sta menata
del Libano!»
Il mare
perde la sua voce. Il vento smette di soffiare e il respiro si blocca
nei nostri toraci.
«Il Libano?
Che cazzo dici. Quella è un’altra storia! Tu sei a naja» dice
Franz.
«In Libano
hanno mandato i carabinieri di carriera e la faccenda è quasi
finita, stanno per tornare» aggiunge Nucleo.
«Qui però,
non si parla d’altro» afferma Pino preoccupato.
«Ma fammi
capire... Se sei a naja, tu cosa c’entri con le forze
multinazionali.»
«Niente. Ma
è una paranoia che gira! Dicono di stare attenti a non fare cazzate
che per punizione ti possono mandare là.»
«Certo che
questa storia è davvero folle. Israele ha chiamato l’invasione del
Libano Pace in Galilea.»
«La pace
non la imponi. La fai e basta. E poi sono ridicoli. Portano la pace
con lo sterminio dei palestinesi. È un ossimoro!» dice Franz.
«Un che?»
lo guarda Nucleo.
Titillo
cambia aspetto, prende un’intonazione seria.
«Il governo
italiano ha votato questa missione fuori dall’Onu. Una roba
indipendente persino dagli americani.»
«L’Italia
indipendente!» ride ironica Criss. (…)
«Non è di
certo la mia guerra! Io penso solo a finire la naja.»
«Comunque
già l’autunno scorso, forse vi è sfuggito che il Consiglio dei
ministri italiano ha deciso per l’intervento militare in Medio
Oriente! E da marzo la Marina italiana pattuglia lo stretto di Tiran»
continua Titillo.
«Il che?»
«Lo stretto
di Tiran a sud del Sinai. Certo che siete proprio una massa di
ignoranti!» conclude disgustato Titillo.
Ci guardiamo
a vicenda leggendo lo stesso sguardo colpevole.
«Cazzo ma
questa non è storia! È attualità se proprio non volete chiamarla
politica!»
«No, per me
è solo un gran casino sulle carte geografiche!» ride Criss.
«Vabbè
facciamola corta. Il contingente italiano che è là adesso deve
proteggere la ritirata dei fedayn di Arafat da Beirut Ovest senza che
succeda niente. Una specie di garante!»
«Una specie
di cani da guardia!» annuisce polemica Criss.
«Tanto che
la missione è stata votata anche dalle opposizioni.
Visto che
serve a salvare i palestinesi. Solo così la guerra si può
travestire da pace.»
«Comunque
io non ci capisco niente lo stesso e ho paura. Mi sono infognato in
’sto casino per andare lontano da quella stronza mentre potevo
chiedere il rinvio! E poi ho anche pensato a disertare, ma in
famiglia di galeotto c’è già mio padre.»
«Avresti
potuto evitare la naja!?» chiede Titillo.
«No... Ma
almeno rimandarla per motivi di studio e poi si vedeva, magari mi
facevo dare un articolo.»
«Ormai la
stronzata l’hai fatta!» gli ricordo.
«Eh, lo so.
Adesso spero che non mi mandino in qualche posto sperduto sui monti!»
«Sai già
quando?»
«Settimana
prossima ho il giuramento e poi ci saranno le destinazioni.» Uno
sguardo di terrore balena negli occhi di Pino e scatta in piedi.
«Occcazzo!
Devo rientrare!»
Si vestono
in fretta lui, Franz e Titillo e spariscono verso la macchina.
Noi ci
avviamo nel buio verso la spiaggia guidati dalla risacca e dalla scia
bianca che si disperde sulla rena. Poi ci lasciamo cullare dalla sera
tiepida e dal suono del mare di fine agosto.
DICIANNOVESIMO
«Che
freeedo!» ulula l’Anna dalla ringhiera.
«Raga!
È ufficialmente iniziato l’autunno!» dice Titillo ammiccando alla
vedetta del ballatoio a fianco.
«Io
ho già acceso la stufa!» grida di rimbalzo l’Adelaide.
«E
che cazzo ce ne frega!» grugnisce Nucleo.
Criss
piazza anche l’ultima pagina sulla moquette. Trentadue pagine sono
tante! Messe a tappeto sul pavimento, poi, sembrano ancora di più.
«Che
figata!» dico guardando le macchie nere e bianche che compongono i
testi, le foto, le immagini, i titoli, i testi e i disegni.
«Bellissimo»
è l’eco di Criss.
Ancora
una volta la foto di noi sotto la scritta FAME compare in copertina
su uno sfondo a collage con immagini di cibo a richiamare il titolo.
L’impaginato è perfetto. Anche il fotoromanzo alla fine è venuto
bene. Gli articoli, le interviste, le foto e la grafica in total
black.
Nero,
c’è molto nero. Trasuderà inchiostro da tutte le pagine. Abbiamo
lavorato nei ritagli di tempo libero dal lavoro di ognuno. Di notte,
facendo l’alba a stampare foto e riempire di inchiostro gli spazi,
tra caffè, birre, brioches e focaccine appena sfornate alle quattro
del mattino. Ci siamo alternati a battere i tasti della Olivetti
lettera 22 a fare avanti e indietro dalla copisteria per riduzioni e
ingrandimenti. Abbiamo raccolto bottiglie di vetro da rendere e
prelevato gettoni dalle cabine,
ci
siamo autotassati, abbiamo incassato da librerie e negozi di dischi
il frutto delle copie vendute da aggiungere alla cassa delle vendite
individuali.
«Finitela
di lucidarvi gli occhi!» Marco interrompe la contemplazione.
«Adesso
si deve concretizzare. Sono passato alla tipografia della sezione.
Gli ho portato il primo numero giusto per avere idea della quantità
di inchiostro e per la carta e mi hanno fatto un preventivo
fantastico.»
«Bella
notizia!» dice Titillo.
«Vedi
che anche i dinosauri a qualcosa servono?»
«Quando
si va in stampa?» chiede Sandra.
«Subito!»
dice Criss. «Ti hanno dato dei tempi?»
«Se
vogliamo anche dopodomani sera, che lavorano fino a tardi per
chiudere un lavoro. Tipo nove, nove e mezza.» conferma Marco.
«Okay!
Boccione di Negroni?»
«HU
HA HU HA... » urla Titillo ritmando con il pugno verso l’alto.
«HU
HA HU HA...» Marco si alza.
«HU
HA HU HA...» e con Franz e diventa un coro mentre Nucleo apre la
porta e il piccolo corteo esce. Corro alla finestra e grido:
«Prendete qualcosa da mangiare!».
La
risposta arriva immediata dalla strada: «HU HA HU
HA...
HU HA HU HA... HU HA HU HA».
Nucleo
sbuca dall’angolo con la sua inconfondibile camminata ondeggiante
da anfibio dell’esercito italiano. Adesso ci siamo tutti.
Destinazione tipografia. La fermata dell’autobus è più avanti. Ci
avviamo. Criss tiene ben salda la cartellina con l’impaginato. Il
display luminoso del bus si affaccia dalla curva e imbocca il
rettilineo. Se corriamo ce la facciamo, altrimenti dobbiamo aspettare
venti minuti per il prossimo.
«Di
corsa!» dice Nucleo. Scattiamo e nella strada rimbombano i passi
delle nostre scarpe pesanti. Dall’altra parte della via, sul
marciapiede, qualcuno sta urlando. Sembra un litigio. Noi corriamo,
mentre quelli continuano a gridare. Forse si stanno menando.
Un
ragazzo sferra un pugno diretto alla faccia di un tizio con il
cappotto. Un altro ragazzo appoggiato a una 500 urla qualcosa
all’amico che tira un altro pugno all’uomo che incassa.
Poi
il tizio con il cappotto arretra e infila la mano dietro alla
schiena. E adesso la storia cambia. Il ragazzo indietreggia
impietrito e nello stesso istante l’amico grida: «Via! Via!».
Salgono
veloci in macchina mentre l’uomo con il cappotto avanza impugnando
una pistola ben salda tra le mani e si mette in posizione di tiro.
«Dai
che ce la facciamo...» Franz si gira a guardarmi. Non sono portata
per la corsa, sto arrancando dietro di loro che corrono molto meglio
di me. Un’auto passa. Una moto corre sull’altra corsia.
Un
botto secco.
PEM!
Lo scoppio di una marmitta. Sono con la lingua di fuori mentre Marco
inciampa e cade.
FINALE
Si riprende
a vivere. Tutto corre veloce. Portiamo il nuovo numero in stampa.
Sappiamo che non
ci sarà un
terzo. Nucleo, Titillo, Franz, Malox, Lora, Rupaz, Criss, Peterpank,
Sandra e Pino che è appena tornato dal Libano. Ci troviamo per una
cena. Negroni. Birra. Musica. Tutto corre veloce.
Ci siamo
incontrati, ci siamo amati e forse abbiamo anche pensato di essere
immortali. Poi, all’improvviso, le nostre vite si sono fermate e
noi ci siamo girati a guardare quello che resta dei mesi passati a
discutere e a litigare, a sognare insieme, a cercare di costruire
qualcosa.
Il segno
tangibile di tutto questo è nei fogli di appunti, sulla carta
stampata, nei manifesti sui muri, nella musica sopra e sotto i
palchi, nella scritta FAME che resiste ancora sul muro del
supermercato.
(…) Poi il
rumore dei sassi alla finestra mi riporta alla realtà.
«Criss...»
mormoro mentre sbircio dal vetro «Arrivo.»
«Ti va se
dormo da te stanotte? Non ho voglia di stare da sola» mi dice sul
portoncino.
«Certo.
Anche io ho bisogno di compagnia.»
(…) Guardo
Criss. Lei mi fissa negli occhi. «Adesso non siamo più
invincibili...» mi dice.
«È vero,
ma sappiamo che i sogni sono immortali» le rispondo cercando sul suo
volto l’energia che ci possiede, il desiderio di una vita che valga
la pena di essere vissuta senza compromessi.
Cerco in lei
la conferma che siamo ancora pronte a una nuova danza di guerra.
Non parliamo
più. Non c’è altro da aggiungere. Restiamo in silenzio.
Mettiamo una
cassetta lasciando andare la musica. (..)
Poi
finalmente dormiamo.
Un sonno
ristoratore senza sogni.
LOVE
WILL TEARS US APART
Nessun commento:
Posta un commento