Lady Alice Hawthorne in quanto pupilla del re, è stata allevata alla Corte di re Enrico VIII, un mondo di ricchezza, sfarzo e sanguinarie fazioni politiche. Il modo in cui è cresciuta l’ha resa un’esperta nel restare fuori da guai… Finché non ha raggiunto l’età da marito. Ora un fidanzamento abominevole getta il suo futuro nel caos e dà inizio a una serie di eventi che la lasciano abbandonata, fuori al freddo, alla mercè di… Beh, un certo Adam Chase, piuttosto galante e di bell’aspetto…
Appena diventato conte, Adam vacilla sotto il peso delle sue responsabilità, che includono il suo imminente matrimonio, una tenuta in difficoltà e doversi occupare di quattro litigiose sorelle minori. Ma un gentiluomo non può ignorare una dama in pericolo (specialmente una carina), quindi, quando le loro strade si incontrano, Adam accetta di ospitare la misteriosa sconosciuta, Alice. Peccato che i segreti di Alice la colleghino a un complotto sovversivo che coinvolge la principessa Elizabeth e che ora implicherà tutta la famiglia di Adam. Almeno essere gettato in prigione gli risparmierà il fidanzamento con una donna mentre si sta innamorando di un’altra…
16 gennaio 1549
Palazzo di Hampton Court, Inghilterra
In una tranquilla e nebbiosa notte nel pieno dell’inverno non c’erano guardie all’ingresso degli appartamenti del re.
Una circostanza che la diciassettenne lady Alice Hawthorne trovava meravigliosamente confacente.
Non che le guardie l’avrebbero dissuasa. Un’astuta distrazione o civettare un po’ avrebbero risolto il problema, oppure, se necessario, una mancia discreta. Alice non usciva mai senza una borsa piena di monete nascosta sotto le sottane, anche se avrebbe preferito risparmiare i suoi soldi per una bella spilla nuova invece di sprecarli in mance indiscriminate. Secondo lei, pagare era una soluzione poco elegante, un’ammissione di fallimento. Un cortigiano sarebbe finito sul lastrico se si fosse basato solo su quel metodo.
Beh, forse non un cortigiano ricco come Alice, ma uno normale sicuramente sì.
In ogni caso quella sera non sarebbe servito pagare nessuno. Solo una serie di chiavi rubate e la nebbia che saliva dalle rive del fiume per nascondere i suoi movimenti. Si era messa il suo mantello preferito, di velluto ricco e morbido di un verde così scuro da essere quasi nero: bello e pratico per le uscite notturne. Con un cappuccio foderato di pelliccia che copriva i suoi capelli biondi, era solo un’ombra eccezionalmente ben vestita.
La prima chiave sull’anello avrebbe aperto il cancello del Giardino Privato, ma lo trovò già aperto. Alice scosse la testa chiudendosi il cancello alle spalle. Le guardie dovevano aver bevuto troppo quella sera a cena.
Mentre attraversava il giardino, il pensiero di quello che sarebbe venuto la fece camminare un po’ più svelta. Erano passate molte settimane da quando aveva percorso quel sentiero. I suoi piedi avrebbero voluto galoppare verso la loro destinazione, ma si sforzò di fare passi misurati e seguire la sua solita strada lungo il muro del giardino, dove le alte siepi offrivano un’ulteriore copertura. Anche se l’aveva fatto una dozzina di volte senza essere scoperta, la vita di Corte le aveva insegnato che un buon piano funzionava solo se ci si atteneva. La sbadataggine invitava le sorprese.
Alice detestava le sorprese.
Quando raggiunse il bell’edificio di mattoni, un’altra chiave dall’anello preso in prestito aprì una porta insignificante. All’interno era buio pesto, tranne un po’ di brace che brillava nel focolare. Accendendo una candela dal fuoco coperto, salì in fretta una scala a chiocciola.
Adesso poteva rilassarsi, un po’. Era nelle Privy Chambers, le Stanze Private di re Edward. Nonostante il loro nome, quelle erano le stanze pubbliche usate per gli affari di stato, quindi di notte erano vuote. Le stanze veramente private del re erano chiamate Secret Lodgings, gli Alloggi Segreti ed erano su un diverso piano, mentre la sua camera era in tutt’altra ala.
Ad Alice prudevano le dita quando aprì la porta della King’s Gallery, la Galleria del Re. Era una stanza lunga e stretta con le pareti dal ricco rivestimento, dipinte e coperte di arazzi. Sparsi nella stanza c’erano alcuni mobili e altri begli oggetti.
Ma Alice aveva occhi solo per uno di quei begli oggetti. L’unico al mondo che poteva farle dimenticare l’incubo che stava vivendo, anche se solo per qualche minuto.
«Benvenuto, vecchio amico» sussurrò, passando dolcemente le dita lungo il bordo liscio come il satin dello strumento. Il virginale del re era di acero meravigliosamente scolpito e intarsiato. Appoggiò la candela sulla sua superficie e tirò vicino un piccolo sgabello su cui sedersi. Anche se le gambe strisciarono sul pavimento di gesso dipinto, il suono non causò alcun allarme ad Alice. Gli attendenti di Edward sarebbero stati nell’ala est, intorno al suo capezzale, o a dormire nella sua anticamera, con tante vaste sale di ricevimento vuote che separavano il loro dominio dal suo. Significava che Alice avrebbe potuto fare tutto il rumore che desiderava.
E voleva farne tanto.
Ben al disotto della sua calma esteriore era furiosa. L’indegnità che aveva sofferto quel giorno era indifendibile. Era oltraggioso. Era un affronto a tutto ciò che era buono e decente sulla terra.
Era un fidanzamento.
«Non potete costringermi a dire “Lo voglio”» aveva detto ribollendo di rabbia nelle stanze di Edward Seymour, duca di Somerset, Lord Protector of the Realm, Lord Protettore del Reame e l’uomo più potente d’Inghilterra, finché l’undicenne re Edward non avesse raggiunto la maggiore età.
Somerset si era lisciato la rada barba rossa. «Sono il vostro tutore e ho il diritto di decidere dei vostri diritti matrimoniali.»
«Non senza il mio consenso.»
«Darete il vostro consenso.»
Alice lo aveva trovato divertente… Allora. «Avete le orecchie piene di ovatta? Preferirei mangiarmi una mano anziché sposare quello spregevole porco. Non darò il mio consenso.»
«Sì, invece» aveva detto Somerset in tono annoiato. «Perché se non lo farete vi farò imprigionare nella Torre.»
Alice aveva sentito un brivido di paura. «Mi arrestereste senza alcuna causa?» L’aveva sorpresa. Somerset poteva essere un uomo diretto e borioso, ma non era crudele.
«Oh, sono sicuro che potremmo trovarne una.» Aveva agitato una mano. «Corruzione, sotterfugi, parlare contro il sovrano…»
«Non ho mai parlato contro il re in tutta la mia vita!» aveva esclamato Alice, ignorando le altre accuse. «È un caro amico.»
Non era del tutto vero. Alice e Edward avevano giocato insieme da bambini ma man mano che cresceva il principe era diventato sempre più pomposo, arrogante e sgradevole. Ora la loro “amicizia” era un’educata finzione che lei manteneva per il bene della sua posizione a Corte.
«Credete che stia scherzando, bambina?» Somerset si stava già voltando, aprendo un registro, chiamando il suo segretario. «L’accordo è concluso. Lo sposo ha già pagato, il contratto è stato firmato. Non potrei cambiare rotta adesso anche se lo volessi.»
Alice aveva lottato contro l’allarme che cresceva. «Ma perché lui? Perché Cainewood?»
Il marchese di Cainewood, o Swinewood, il Porco, come preferiva chiamarlo Alice, era un cortigiano senza scrupoli che aveva cominciato ad ammassare potere e ricchezza negli ultimi anni. Alcuni uomini collezionavano monete, altri cavalli, Swinewood collezionava incarichi. Keeper of the Privy Purse, Master of the Tower Mint, Clerk of the Signet (Custode della Borsa Privata, Capo della Zecca della Torre, Addetto al Sigillo) e così via. Ogni incarico comportava un generoso stipendio e un aumento della sua influenza: un nuovo modo di concedere favori, e ottenerli da altri uomini illustri. Innalzato dall’oscurità, Swinewood adesso aveva le mani in talmente tanti angoli del governo che taluni sussurravano che fosse lui e non il Duca di Somerset, a essere il vero reggente.
Somerset non si voltò. «Perché non Cainewood? Dovresti essermi grata. Avrei potuto promettervi a un nonno, se avessi voluto.»
Cainewood aveva l’età giusta, era sulla trentina, ed era sufficientemente di bell’aspetto, anche se non rispecchiava i gusti di Alice. «Ma è il vostro rivale. Che cosa sperate di ottenere da questa alleanza?»
«Le mie ragioni sono solo mie.»
«Le vostre ragioni sono un’idiozia!» Alice stava perdendo il controllo. «Se state cercando di ottenere la sua lealtà usando il mio patrimonio…»
«Voi non sapete niente, ragazza.»
«So che la vostra presa sul Consiglio è tenue. Lo sanno tutti. So che il malcontento si sta diffondendo in campagna anche mentre si diffonde tra i nobili. Il re stesso comincia a non fidarsi di voi. State diventando disperato…»
«Oh, avere la sicurezza della gioventù.» Somerset fece una risata di scherno. «Pensate di vedere tutto mentre incespicate alla cieca nel buio, vero?»
Alice fece spallucce. «Penso di essere pragmatica mentre voi siete un uomo con dei principi.»
Non lo intendeva proprio come un complimento. Il duca credeva nell’uguaglianza e nel migliorare la sorte degli ordini inferiori, ma le sue politiche non erano popolari presso i cortigiani che credevano di avere diritto al loro rango e alla ricchezza grazie alla loro nascita superiore. Da parte sua, Alice ammirava l’integrità di Somerset… ma non il suo acume politico.
«Molto bene» ribatté il duca. «Io penso che siate un’infida, insolente spina nel fianco.»
Alice era rimasta ferita. Anche se lei e il suo tutore si erano sempre scontrati, Somerset era la cosa più vicina a un padre che avesse mai avuto. Non le aveva mai parlato con tanto disprezzo.
«Capisco» aveva detto freddamente. Non aveva intenzione di fargli capire che l’aveva ferita.
Il duca tornò nuovamente al suo registro. «Non ho tempo per queste stupidaggini, lady Alice. Avete ascoltato i miei desideri. Rassegnatevi.»
Aveva schioccato le dita e il segretario si era affrettato a far entrare un nuovo postulante.
Le parole del duca erano risuonate continuamente nella mente di Alice per tutta la sera. Infida. Insolente. Spina nel fianco. A ogni ripetizione il volume sembrava crescere mentre si tamburellava inquieta le dita sulla coscia.
Lei e Somerset non erano legati. Non si erano mai sentiti a loro agio insieme. In effetti, non si sopportavano. Ma lei aveva sempre pensato che dietro alle loro schermaglie ci fosse… Se non affetto almeno un reciproco rispetto. Era veramente ciò che il suo tutore pensava di lei?
Era così che lei meritava di essere considerata?
Col bisogno di cancellare dalla mente le parole assillanti, aprì il suo libro di spartiti alla pagina di una canzone che rispecchiava il suo umore, lo mise accanto alla candela e alzò il coperchio del virginale.
Di tutti gli strumenti che aveva imparato a usare, e li suonava tutti, era quello che amava di più. La sua musica era una presenza, una compagna. Alle sue orecchie suonava come chiacchiere confortanti tra amiche. Solo quando era lì, con le mani che sfioravano i lisci tasti d’avorio e le orecchie piene di musica, la sua mente instancabile riusciva a svuotarsi beatamente.
Cantò il primo verso, coprendo la melodia:
Fortune my foe, why doest thou frown on me
And will thy favour never better be?
Wilt thou, I say, for ever bred my pain
And wilt thou not restore my joys again
Fato, mio nemico, perché mi guardi malevolo
E il tuo favore non migliorerà mai?
Aumenterai sempre il mio dolore
E non mi riporterai mia la gioia?
Nonostante le parole malinconiche, gli angoli della sua bocca si sollevarono mentre cantava. Non c’era niente al mondo come la musica. Ogni altro piacere nella sua vita era avvolto in calcoli e contraddizioni, alla ricerca dello status o di favori. Le piacevano i segni esteriori della sua nascita: il buon cibo che mangiava, gli abiti sontuosi che indossava, ma non erano veramente per lei. Erano un’ostentazione per ricordare agli altri ciò che le era dovuto. La musica era l’unica cosa che faceva solo per se stessa.
Il rumore di un cane che abbaiava continuò per un po’ prima che Alice se ne accorgesse.
Le sue mani si fermarono mentre si sforzava di ascoltare. Era sicura che fosse Erasmus, lo spaniel preferito del re, aveva giocato con lui abbastanza spesso da riconoscere il suo modo di abbaiare. Ma non lo aveva mai sentito così incontrollato. Erasmus era un cane che si comportava sempre in modo impeccabile.
Sentì rizzarsi i peli sulla nuca, spense la candela e la riportò al suo posto. Se ci fosse stato un qualche tipo di disordine, altri si sarebbero svegliati e se l’avessero trovata nella King’s Gallery… Beh, anche se il giovane Edward le voleva un mondo di bene, non poteva fare a meno di essere quello che era.
Cioè, l’undicenne più viziato, pomposo e bigotto di tutta l’Inghilterra. Odiava che la gente toccasse le sue cose almeno quanto odiava i papisti.
Ascoltando alla porta, non sentì passi che scricchiolavano sulla leggera coltre di neve. Scappare subito e restare nascosta finché il pericolo fosse passato? Presa la decisione, si avvolse intorno stretto il mantello prima di aprire lentamente la porta, sporgendo appena la testa oltre lo stipite. La gelida aria invernale le colpì la faccia. La nebbia offuscava la luna, ma riusciva a intravedere le sagome delle siepi e delle statue. Non c’era nessuno in giro.
Aveva messo un piede fuori dalla stanza quando risuonò il primo sparo.
CRACK, arrivò il secondo sparo mentre si stava voltando. Scivolò e atterrò pesantemente sulla soglia gelata. Senza fiato, restò stordita solo qualche secondo, ma fu già troppo. Quando tornò a vedere chiaramente, individuò un gruppetto di figure che uscivano in giardino arrivando dalla porta del grande Privy Staircase, lo Scalone Privato. Contò cinque uomini in tutto.
Dio del Cielo, avevano occupato il palazzo? Li stavano invadendo?
Ma quando uno di loro parlò, sentì la voce di un inglese. «Maledetto shhtupido!» disse con una lisca molto pronunciata. «Che cosa…»
«Ho zittito la bestia, no?» disse in tono basso la seconda voce. La riconobbe, sbalordita. Lord Sudeley? Come, era il fratello di Somerset! «Andiamo, non è ancora finita…»
«È finita» disse una terza voce, fredda e roca. Non riuscì a individuare a chi apparteneva. «Ci vediamo all’inferno, Sudeley.» Senza dire un’altra parola, lo sconosciuto voltò sui tacchi e corse oltre Alice, quasi investendola. Alice ansimò e si appiattì contro il muro, ma l’uomo non la degnò di uno sguardo nella sua fretta di abbandonare i suoi amici.
«Chi è là?» sibilò Sudeley, guardando verso dove si trovava Alice, che si immobilizzò, tranne il cuore che faceva del suo meglio per uscirle dal petto. Sudeley si incamminò sulla neve, ricaricando la pistola mentre si avvicinava. Alice non riusciva a vedere la sua faccia al buio, ma sentiva l’odore della polvere da sparo e sangue. Povero Erasmus, pensò.
Apparve una falce di luna mentre Sudeley alzava il braccio e Alice si ritrovò a fissare la canna di una pistola. Era l’immagine più terrificante che avesse mai visto, finché non vide il luccichio folle nell’occhio dell’uomo. «Lady Alice Hawthorne» mormorò riconoscendola, con il fiato visibile nell’aria fredda. «Una volta avevo chiesto la vostra mano, sapete? Mio fratello me l’aveva rifiutata.» Sudeley armò la pistola. «È un peccato che ci abbiate visto. Adesso dovrò uccidervi.»
Alice strinse forte gli occhi e fu sorpresa da ciò che vide lì, dietro le palpebre, nei suoi ultimi momenti sulla terra. Era il bel volto della sua cara amica Catherine. Alice non pensava a lei da anni…
«No…»
«Aaaargh!
«Datemi qua!»
«Lasciatemi!»
«Attirerete le guardie, shhtupido idiota».
CRACK!
Alice spalancò gli occhi vedendo Sudeley che lottava con il complice con la lisca... E lei era illesa. La pallottola aveva colpito il muro di mattoni dietro di lei.
Si rimise immediatamente in piedi, precipitandosi attraverso il giardino in fretta quanto glielo permettevano l’abito pesante e le scarpe con il tacco alto. Maledetta la mia vanità, pensò barcollando coi tacchi alti sulla neve scivolosa, respirando affannosamente l’aria gelida che le bruciava i polmoni. Corse direttamente verso il corridoio centrale del Privy Garden, con urla e rumore di passi dietro di lei, poi attraversò precipitosamente la galleria che portava al Watergate, la porta fortificata sulla riva del fiume. Ogni boccata d’aria sembrava fuoco, il vento le fischiava nelle orecchie gelate e non aveva idea di dove andare o che cosa avrebbe fatto se fosse riuscita a sfuggire ai suoi inseguitori. Non osava guardare indietro.
Continuò a correre.
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