La signora Sanfilippo, uno dei due protagonisti di Spazzatura, ovvero una donna che sciupa la sua vita sempre pretendendone una diversa, ma che però non arriverà mai. Una vittima di sé stessa per ingordigia, ma soprattutto per superficialità.
“Il signore e la signora Sanfilippo rappresentavano una tipica coppia di quella Roma mediamente agiata, scaltra e superficiale, che considera l’esistenza uno spettacolo da inscenare più per suscitare l’invidia altrui che per ottenere la propria soddisfazione. Con due figli già all’università, alle prese con difficoltà economiche alle quali avevano risposto tagliando il necessario pur di continuare ad ostentare il superfluo, impelagati in adulteri che li avevano affinati solo nell’arte della dissimulazione, i coniugi Sanfilippo erano arrivati ciascuno per proprio conto alla convinzione che il loro matrimonio fosse ormai solo un ostacolo al godimento di quell’esistenza più comoda e brillante che ritenevano di meritare“.
Quante ce ne sono, di donne così che attribuiscono alla sfortuna ciò che è invece frutto del loro modo di intendere la vita ?
Cosa non si farebbe, per ottenere una promozione ! Soprattutto se si è come il personaggio principale di Tartarughe Rosse, il dottor Gerolamo Bernabò, convinto che “ tra le tante ingiustizie che rovinano il mondo, una delle più odiose era quella che gli impediva di ottenere nell’organigramma del ministero dove lavorava da 38 anni un incarico adeguato alle proprie qualità. O, per essere più precisi, un incarico consono alle qualità che egli era consapevole d’avere e che solo l’invidia del meschino ambiente burocratico romano si ostinava a non riconoscere“.
Ed ecco quale – a parere di lui stesso – sono le principali di tali qualità: l’abilità nella soluzione di giochi enigmistici, la sottigliezza con la quale era uso ragionare prima di prendere anche la più piccola decisione e una maniacale propensione all’investigazione del prossimo.
Persino un figlio può ignorare quale fosse la vera indole del proprio padre. E’ il caso dell’avvocato Barbetta, protagonista de Il Racconto numero venti.
Un professionista serio, stimato, riservato, amante della lettura e lui stesso (sia pure segretamente) scrittore.
Solo che alla scrittura l’avvocato Barbetta affida una funzione piuttosto stravagante, e che sarà scoperta solo dopo la sua morte, allorché tutto il contenuto della sua biblioteca sarà alienato dai figli, finendo in una libreria antiquaria del centro di Roma.
Solo che al libraio mancherà il coraggio di informarne i figli...
Un avvocato come ce ne sono tanti nell’upper class romana. Si chiama Ruggero, e ha 57 anni. Ruota intorno a lui il racconto Aria di primavera.
“Alto, le scarpe nere lucide, i pantaloni grigi di flanella col risvolto che spuntano dal cappotto blu, i capelli tutti bianchi sulla parte anteriore del cranio e ancora neri sulla parte posteriore“. Un bell’uomo, elegante, brillante, di ottima famiglia. Solo che c’è un ma: è un professionista mediocre, con una clientela altrettanto mediocre, ormai rovinato dai suoi vizi, dalle spese per automobili e sartorie, oltre che da due divorzi. Cosicché ha ormai riposto solo in un’eredita la speranza di mantenere il suo status, se non addirittura quella di non finire nell’indigenza.
Però la ricca zia non muore…
La professoressa Amalia Moretti, protagonista di Dieci euro a parola, è l’incarnazione del rancore. E’ insoddisfatta della sua vita, del lavoro, dei suoi amori; e ogni mattina questo sentimento è ravvivato dalla lettura del giornale. Dove tutto la indigna.
“Le pagine culturali - a suo parere - erano asservite agli interessi delle varie camarille editoriali, cosicché non c’era da fidarsene; le cronache nere le facevano orrore, le considerava puro voyeurismo che nulla potevano aggiungere alla sua radicata convinzione circa la bestialità del genere umano; le cronache rosa le trovava scandalose per la loro fatuità e immoralità; l’economia, con quel lessico da iniziati, le dava l’orticaria, anche perché dinanzi al denaro si compiaceva di provare un assoluto disprezzo; i reportage dall’estero li trovava irritanti per la propensione a guardare col microscopio tutto ciò che succede nel mondo ricco e con il cannocchiale quel che accade in quello povero; e quanto alla politica nazionale, tutte le sue contorsioni le suscitavano solo ribrezzo“. Ma più di ogni altra cosa, la indignano i necrologi…
Nella cena alla quale – controvoglia – ha accettato di partecipare, per la signora Liliana tutto è insopportabile. L’atmosfera, il cibo, i vini, la (stentata) conversazione. Ma ciò che soprattutto le serra lo stomaco è il rumore prodotto contro bottiglie, bicchieri e piatti dal bracciale della padrona di casa.
“Dall’inizio della cena il bracciale della signora Franca sbatte contro qualcosa, e la signora Liliana alza la mano davanti al suo piatto per dire no, grazie, non ho fame“.
Deng! è appunto il titolo del racconto. Dove si capirà che per comportarsi così la signora Liliana ha un buon motivo.
Don Settembrino, protagonista de La ninfa dell’esedra, è entrato in seminario a 14 anni, spinto da “ una confusa pulsione verso una qualche forma d’eroismo, o almeno verso qualche gesto o decisione che destassero sconcerto, stupore, ammirazione, presso tutti coloro che ne avevano fin lì trascurato l’esistenza, ossia presso tutti coloro che lo conoscevano. La scelta ecclesiastica gli era apparsa come l’unica idonea per segnalarsi clamorosamente al mondo, per far parlare di sé, e non rendere banale la sua vita. Si univano a questa aspirazione anche il fascino che su di lui, come su gran parte dei romani, avevano sempre esercitato le pompe ecclesiastiche, e il calcolo di poter esercitare attraverso la Chiesa una qualche forma di potere sui propri simili“.
Solo che, una volta diventato sacerdote, don Settembrino aveva fatto una scoperta angosciosa: la voglia irrefrenabile del corpo femminile.
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