CAPITOLO XVI
Per conciliare il mio lavoro di giornalista con le esigenze della famiglia, facevo i salti mortali. Se inizialmente la mia preoccupazione principale era quella di garantire ai miei familiari una vita dignitosa, poi divenne prioritaria una mia maggiore presenza in casa, visto che le esigenze di Gianni aumentavano via via che cresceva. Fortunatamente la mia professione mi consentiva di svolgere il lavoro secondo tempi e modalità da me stabiliti. Così, organizzavo i miei spostamenti concentrandoli in un paio di giornate alla settimana, in maniera tale che il resto del tempo potessi rimanere a casa. Il direttore della Gazzetta di Puglia mi aveva affidato una rubrica bisettimanale intitolata “Il mondo delle donne”, in cui dovevo portare agli onori della cronaca storie di donne del sud. Non erano passati molti anni dalla fine della grande guerra, che aveva portato alla ribalta l’universo sommerso e silenzioso delle donne, fino a quel momento solo satelliti dell’uomo. Donne che non avevano conosciuto altra condizione se non quella di madri e di massaie, di “angeli del focolare” col ruolo di garantire all’uomo uno spazio confortevole come premio dopo la fatica del lavoro, ora dovevano uscire da quelle case per sostituire gli uomini nelle fabbriche e nelle campagne. Si è detto e si è scritto tanto sul sovvertimento dei ruoli che la prima guerra mondiale produsse, quasi sia stata per le donne occasione di emancipazione personale. Forse può essere in parte vero per le donne della piccola e media borghesia, e certo non nel sud Italia, che ebbero accesso a quei settori da sempre prerogativa degli uomini, come le Università o i locali di svago. Ma qui da noi la guerra rappresentò solo un ulteriore fardello di cui, in assenza dei mariti e dei padri, le nostre donne dovevano farsi carico. Così, al lavoro domestico si aggiunse quello, estenuante, nei campi, ma anche, nei centri urbani, di bigliettaie, spazzine e sarte soprattutto di divise militari. Ne ho conosciute tante di donne che a trent’anni erano già stanche della vita, che trascinavano le proprie esistenze solo perché avevano figli da tirare su. Donne che avevano solo dato, fino all’abbrutimento, che non conoscevano altro se non il sacrificio e la fatica. La maggior parte di loro rimasero chiuse in un ostinato silenzio, nonostante le mie sollecitazioni. Riuscii nel mio intento con quelle più giovani, che ebbero fiducia in me o che aspettavano solo l’occasione per raccontarsi. Raccoglievo le testimonianze delle loro vite, e le pubblicavo, poi, nella mia rubrica. Non fu sempre facile per me mantenere quell’ atteggiamento obiettivo e distaccato che si richiede al giornalista. Molte volte sono stata emotivamente coinvolta da certe storie drammatiche, dal cui confronto nacque in me un senso di inadeguatezza che, tuttavia, mi consentì di elaborare una volta per tutte i miei lutti e di sviluppare la mia forza interiore. Fra le tante, una in particolare non dimenticherò mai.
Nella mia rubrica la intitolai: “La scelta di Margherita”
“Ha il nome di un fiore: Margherita. E’ una ragazza minuta, dai grandi occhi castani incastonati in un viso piccolo e triste. Se non ci fosse stata la guerra, nessuno avrebbe mai saputo della sua esistenza. Perché Margherita non è delle nostre parti. E’ nata in un paesino della provincia di Udine 20 anni prima della grande guerra. Abitava col marito Carlo in un casolare di campagna nell’alta pianura friulana, dal terreno ghiaioso perché di origine alluvionale. Erano contadini, orgogliosi proprietari di un piccolo podere coltivato faticosamente a vite. Si occupavano della vigna con impegno e dedizione, certi che da essa sarebbe dipesa la loro fortuna. Ma il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra, e Carlo fu chiamato alle armi. Il giorno della partenza Margherita abbracciò forte il suo sposo imponendosi di non piangere. Ma quando tornò a casa diede sfogo alla sua disperazione, maledicendo se stessa per non essere ancora incinta. Da giorni, infatti, esorcizzava il dolore fantasticando che, al suo ritorno dal campo di battaglia, Carlo l’avrebbe trovata ad attenderlo sull’uscio di casa con il figlioletto in braccio. Nelle sue fantasie, quel bambino lo immaginava neonato. Sì, perché tutti sapevano che la guerra sarebbe durata poco. Giusto il tempo, per l’Italia, di riprendersi Trento, Trieste e Gorizia. Alla fine, perché preoccuparsi? Erano ancora molto giovani, e presto Carlo sarebbe tornato a casa. Avevano già pensato al nome da dare al bambino: Giuseppe, come il nonno paterno, passato a miglior vita già da alcuni anni, pace all’anima sua.
Ma la guerra durava più del previsto. Così, l’anziano padre di Margherita, vedovo da sempre, si era trasferito a casa della figlia. Il fronte di guerra non era lontano. Si estendeva lungo le alpi carniche esaurendosi, poi, nei pressi di Monfalcone, sul mare Adriatico. Spesso, soprattutto nelle limpide giornate di sole, si sentiva il tuonare dell’artiglieria. Allora Margherita interrompeva il lavoro nel podere per mettersi all’ascolto, col cuore che le batteva all’impazzata nel petto. Immagini di morte le affollavano la mente: vedeva nugoli di soldati uscire urlando dalle trincee per precipitarsi contro il nemico. E in mezzo a loro, Carlo, il volto coperto di sangue e la bocca spalancata in un grido di rabbia e disperazione. Poi, madida di sudore, si costringeva a non pensare e a riprendere il lavoro. Così, in un alternarsi di momenti di angoscia ad altri di speranza, trascorse il primo anno di guerra e poi anche il secondo, senza che la tanto attesa notizia della fine del conflitto giungesse. Poi la fine arrivò, e fu deflagrante. Dopo undici battaglie combattute sull’Isonzo, che ebbero un costo elevatissimo (circa 700.000 tra morti, feriti e dispersi) in cambio della sola conquista di Gorizia, il 24 ottobre 1917 ebbe inizio la dodicesima e ultima battaglia. Quella, tristemente famosa, di Caporetto. Quella notte Margherita dormì un sonno inquieto. All’alba, in preda ad un’inquietudine crescente, si alzò e aprì la finestra. L’aria era fredda, pioveva, il cielo scuro senza stelle cominciava a dare segni di chiarore. Una civetta fece sentire per l’ultima volta il suo verso: ormai la notte cedeva il passo al giorno. Tutto era tranquillo. Margherita si diede della stupida. Richiuse la finestra. Ed ecco, improvviso, un forte boato. Per cinque ore di seguito, sulle linee italiane caddero tonnellate di proiettili di artiglieria e di gas tossici. Migliaia di soldati austriaci e tedeschi aprirono una breccia nello schieramento italiano presso Caporetto. Seguì una giornata di combattimenti che culminò nel ripiegamento del nostro esercito. La ritirata durò quattro settimane, fermandosi, infine, sulla linea del Piave. Margherita si sentì scaraventare in un abisso di disperazione. Pensò che non si poteva soffrire più di così. Ma si sbagliava.
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