Respiro Readers
vi segnaliamo l'uscita del romanzo
dell'autore italiano Luca Cozzi.
TITOLO: Il potere delle ombre
AUTORE: Luca Cozzi
CASA EDITRICE: Edizioni della Goccia
SERIE: Bullet. Vol.2
GENERE: Narrativa
PAGINE: 256
PREZZO EBOOK: 2.99
PREZZO CARTACEO: 12
DATA USCITA: 2018
Si tratta del terzo romanzo della saga di Luke McDowell dopo "Senza nome e senza gloria" (2016) e "Shaytan" (2017).
“Gli Eletti sono la fonte, essi dispongono e non hanno colpe, essi vegliano eppur non guardano…” Oscuri poteri, le cui radici affondano nell’abisso dei tempi, non possono permettere che l’ordine delle cose sia/venga messo in pericolo. Sulla via del sale, in preda a funesti presagi, un fedele servitore decide di affidare alle vestigia di un santo le sorti del proprio padrone. Sette secoli dopo, un volume dimenticato e antiche reliquie innescano una caccia al tesoro che coinvolgerà le persone sbagliate: una miscela esplosiva che solo un pugno di uomini disposti a tutto sarà in grado di affrontare. Un’altra missione per l’ex Navy SEALs Luke McDowell e il manipolo di uomini al suo comando. Un’avventura straordinaria porterà il lettore attraverso le tenebre di misteri senza tempo fino allo scontro finale…
Prologo
Chi sostiene che i libri hanno un’anima dice il vero. Me ne
convinsi una gelida mattina di febbraio, tanti anni fa.
Ricordo ancora la piccola e polverosa biblioteca del Consolato,
nella quale mi rifugiavo appena avevo l’occasione. Era fiocamente
illuminata dai raggi del sole che, filtrando attraverso i pesanti
tendaggi blu di una grande finestra, conferivano a tutta la stanza
una luce azzurrognola e un’atmosfera, ai miei occhi, magica e
seducente cui solo la fantasia di un adolescente assetato di
avventura sapeva agognare.
Mi immergevo nella lettura e le parole fluivano nella mia mente
come fini granelli di sabbia tra le dita di una mano, portando con
sé i mille personaggi che incontravo, malvagi ed eroi, bellissime
dame, crudeli condottieri e impavidi corsari.
Gli scaffali riempivano tre dei quattro lati della stanza, alti sino
al soffitto e gremiti di volumi, alcuni dei quali emanavano un’aura
antica e preziosa. Come in qualunque biblioteca che si rispetti, ogni
parete aveva la sua scala, appesa a un binario che correva per tutta
la sua lunghezza. Mi divertivo molto ad arrampicarmi fino in cima
e poi, facendo leva sugli scaffali, mi davo la spinta e volavo da una
parte all’altra come sull’albero maestro di un antico veliero nel
mezzo di una burrasca nel Mar dei Caraibi.
I volumi che si trovavano sui ripiani più alti dovevano essere
molto preziosi e delicati perché mio padre e la mia matrigna si
raccomandavano sempre di non prenderli, tanto più che non
sarebbero stati di nessun interesse per me. Forse, semplicemente,
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si preoccupavano che potessi cadere e non volevano salissi così in
alto.
Quella mattina di febbraio, però, durante l’ennesima
scorribanda sull’albero maestro, uno di quei volumi attirò la mia
attenzione. Ne sfiorai timidamente il dorso con le dita. Era di cuoio
finemente decorato. Il titolo era scritto in oro e in caratteri che
riconobbi essere ebraici. Non avevo la più pallida idea di ciò che
potessero significare le tre parole incise sulla costa né conoscevo
l’autore il cui nome, peraltro, era anch’esso scritto in ebraico.
Lo presi, non senza una certa soggezione, e scoprii che era più
pesante di quanto potessi immaginare. Ridisceso a terra andai alla
vecchia scrivania e, alla luce della lampada da tavolo, aprii l’antico
volume. Le pagine, ingiallite dal tempo, sembravano fragili ali di
una farfalla. Si trattava di una prima edizione e riportava la data del
1755. Lo sfogliai ed ebbi subito conferma, come d’altronde era
logico supporre, che era scritto in ebraico, lingua che io non
conoscevo. Lo richiusi deluso e fu solo allora che mi accorsi
dell’impronta rimasta impressa sulle pagine. Era quadrata, larga
circa un paio di centimetri. Era come se il libro fosse stato
schiacciato contro qualcosa che aveva lasciato quell’indelebile
marchio sul dorso delle pagine. Incuriosito, ritornai in cima alla
scala, con il libro sotto il braccio. Spostai altri due volumi e vidi
sporgere dal muro, proprio dove era riposto il libro che avevo
preso, una specie di grosso chiodo dalla testa quadrata. Bastò fare
una prova per capire che quella protuberanza era responsabile del
marchio inflitto alle pagine. Stavo per protrarre oltre le mie indagini
quando entrò in biblioteca mio padre.
«Cosa ci fai lassù? Non ti avevo forse detto di non toccare quei
volumi antichi? Rimetti subito a posto e scendi di lì! È arrivato il
Maestro Gadel».
Monsieur Henry Gadel era il mio insegnante di pianoforte.
All’epoca adoravo suonare quel meraviglioso strumento dalle
potenzialità infinite. Mi esercitavo per ore, senza mai annoiarmi. La
settimana successiva, per di più, avrei avuto la mia prima occasione
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di esibirmi in pubblico ed ero determinato a ben figurare. In effetti,
il saggio andò per il meglio e mio padre, in una delle sue rare
esternazioni di umanità, si congratulò con me. Quelli che seguirono
furono giorni densi di impegni scolastici e mi dimenticai del libro
e del misterioso chiodo che lo aveva segnato.
Passarono diversi anni, sempre più carichi di responsabilità
didattiche e sportive poiché giocavo a pallacanestro piuttosto bene
e finivo inevitabilmente per essere fagocitato nella squadra della
scuola; furono anni intensi durante i quali riuscii sempre meno a
ritagliarmi qualche ora da passare silente nella quiete della vecchia
biblioteca.
Quando la mia matrigna morì e mio padre fu trasferito
all’ambasciata di Stoccolma io andai a studiare negli Stati Uniti,
all’Università di Yale.
Il tempo è un amico assai bizzarro: cura molti malanni ma altri
ne porta. Insieme alle rughe e alla saggezza, ci propone cinismo e
disincanto, sta a noi scegliere e a volte scegliamo entrambi.
Quando ebbi occasione di tornare a Milano, mi recai al
Consolato Generale di Francia, in via della Moscova, dove avevo
trascorso gli anni più belli della mia adolescenza. Mio padre era
morto da oltre un anno ma con le mie credenziali di figlio di uno
tra i più stimati ambasciatori di Francia non ebbi difficoltà a farmi
ricevere da un addetto diplomatico, il quale si dimostrò gentile e
premuroso. Vidi che il palazzo era stato ristrutturato e gli chiesi
della vecchia biblioteca. Sorridendo fiero mi rispose che non era
stata toccata e che ancora custodiva migliaia di preziosi volumi.
Entrando dopo tanti anni in quella stanza, mi sentii quasi
mancare il respiro. Mi pareva di esser tornato indietro nel tempo,
nulla era cambiato. Perfino la luce che filtrava dai pesanti tendaggi
blu sembrava avere la stessa intensità e gli stessi colori di un tempo.
Riconobbi gli odori, il ticchettio sommesso dell’orologio a cucù, il
cigolio leggero del vecchio parquet, rividi me stesso ragazzino
vivere avventure mozzafiato sull’albero maestro di quel veliero che
solcava gli oceani della mia fantasia.
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L’addetto del Consolato fu lieto di accontentarmi quando
chiesi di poter restare un poco da solo con i miei ricordi.
Ripresi in mano alcuni volumi che avevo letto per la prima
volta proprio tra quelle mura e mi parve che anch’essi si
ricordassero di me: ne percepii il loro tanto silenzioso quanto
caloroso saluto.
Il motivo principale per il quale ero tornato, però, non era la
nostalgia, bensì la curiosità. Avevo un conto in sospeso con uno in
particolare di quei volumi, un libro scritto in ebraico e dalle pagine
marchiate.
Afferrai con entrambe le mani la scala di ottone lucidissimo
scoprendo che era ancora docile e scorrevole come ricordavo.
Individuato il punto, salii senza indugio e quando fui in cima
guardai dabbasso. Mi parve che il ponte della nave fosse meno
distante di un tempo, l’albero maestro meno alto.
Il tempo è un amico assai bizzarro.
Riconobbi senza dubbi l’antico volume. Lo presi insieme ai
due a fianco e lo vidi: era ancora lì, il chiodo dalla testa quadra,
esattamente come lo ricordavo. Allungai la mano e lo afferrai. Tirai,
prima con un timore quasi reverenziale, poi sempre più forte,
finché non cedette. Lo estrassi per una decina di centimetri, fino a
fine corsa e udii uno scatto secco alla mia sinistra. In basso, un
settore dello scaffale era ora più sporgente degli altri.
Ridiscesi per scoprire che quella parte di libreria celava un
passaggio. Tirai verso di me ed essa si girò su cardini invisibili,
pesante ma senza cigolii. Accesi la piccola torcia tascabile che
avevo sempre con me e illuminai una ripida scala a chiocciola della
quale non riuscivo a vedere la fine. Non senza timore, dopo aver
messo alcuni libri sul pavimento a bloccare la chiusura, mi decisi a
scendere.
Mi ritrovai in una stanza molto ampia, di almeno cinque metri
per lato, forse più. Al centro troneggiava un pesante tavolo in legno
sul quale c’erano un candelabro, un piccolo cofanetto quadrato, un
libretto dalla copertina consunta e un fascio di pergamene
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arrotolate, legate con un nastro rosso. Le pareti erano
completamente disadorne. Non un quadro, un simbolo o una frase
disegnati, nulla. La polvere e le ragnatele che ricoprivano come un
sudario la scala e il pavimento dimostravano che nessuno era sceso
in quell’antro da tempo immemorabile. Riportai la mia attenzione
agli unici oggetti presenti. Posata la torcia sul tavolo, presi il
cofanetto che si rivelò essere di legno, liscio e dalle vivaci venature.
Non aveva serratura e lo aprii: conteneva un anello
inequivocabilmente d’oro sul cui dorso era riconoscibile un
elaborato disegno raffigurante due rune di porpora su sfondo nero,
probabilmente un antico sigillo. Indeciso se sciogliere il nodo che
legava il rotolo di pergamene, indugiai alcuni istanti. Potevano
essere reperti preziosi e mani inesperte potevano danneggiarli
irreparabilmente.
Riflettei freneticamente, consapevole che, da un momento
all’altro l’addetto del Consolato poteva ritornare scoprendomi lì
dentro.
Con il senno di poi non so se feci la cosa giusta ma in quel
momento fui a dir poco avventato: presi i lembi del nastro, sciolsi
il nodo e srotolai con estrema cautela l’involto di carta. Le
pergamene, una delle quali fittamente scritta in una lingua che non
riconobbi, parevano delle mappe e gli appunti di una persona che
in calce si firmava Jacques Arieti. In parte deluso, ma ormai preda
di una invincibile curiosità, decisi di portare via con me il cofanetto,
il taccuino e i documenti. Da molti anni nessuno era sceso in quella
stanza e probabilmente chi aveva nascosto quegli oggetti era già
morto. Avrei potuto avvertire l’addetto e la mia coscienza avrebbe
dormito sonni tranquilli ma volevo saperne di più e soprattutto
sentivo che, in qualche modo, quel libro antico mi aveva
“chiamato” facendomi tornare in quella biblioteca senza un motivo
apparente se non quello di rivedere un luogo caro alla mia infanzia.
Al contempo ero convinto che, molti anni prima, quello stesso
sconosciuto volume mi avesse impedito di andare oltre e scoprire
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il segreto che celava, sapendo che allora sarei stato impreparato ad
adempiere alla missione che, ne ero certo, egli serbava per me.
Ho fatto tradurre i testi e ho […]
Luca
Cozzi è nato a Genova e ora vive tra i vigneti del basso Piemonte.
Docente di Scrittura creativa, gestisce un blog dedicato alla
letteratura, insignito per due anni consecutivi del premio “Liebster
Award”
(lucacozziblog.wordpress.com)
e collabora con alcune testate giornalistiche.
Nel
1999 il racconto La
leggenda di Goccia di Luna
ha ricevuto una menzione speciale della giuria al 6° Premio Europeo
di Letteratura.
Nel
2016 pubblica il racconto L’alpino
che giocava ai dadi,
Tre
racconti e una leggenda
(con Gianluigi Repetto) e il suo primo romanzo Senza
nome e senza gloria (Edizioni
della Goccia), primo esordio delle avventure di Luke McDowell, che ha
ottenuto il terzo posto al XVI Festival del Libro Possibile di
Polignano a Mare.
Nel
2017 esce Shaytan,
secondo thriller della saga di Luke McDowell.
Ho conosciuto l'autore quando è venuto a Cagliari e ho letto i primi due, sono molto belli, prenderò anche il terzo.
RispondiEliminaho letto i primi due romanzi e non dubito che anche Il potere delle ombre sarà appassionante. Complimenti per il blog.
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