NOVE
E così il gatto selvaggio (perché dire selvatico è alquanto riduttivo) da nomade si trasformò in sedentario. Adesso, era riottoso alle scorrerie altrove. Liù aveva letto negli occhi di Tancredi la sincerità: poteva concedergli il privilegio della non belligeranza. In fondo, Liù godeva di un certo agio: cibo sempre a disposizione, acqua pulita e fresca, una bella tana, lontana da sguardi indiscreti, un cono d’ombra del magnifico gelso rosso, sotto cui schiacciare un pisolino, a pancia all’aria, nella canicola di agosto e il beneficio impagabile del rispetto della libertà.
Tancredi, a sua volta, aveva tentato di coinvolgere Valeria nella condivisione di quell’insolita amicizia, ma, ogni qualvolta, la donna aveva provato ad allungare due passi in più verso il gattone, intento a sgranocchiare i croccantini, ne aveva ricevuto bofonchi di malcontento: Liù abbassava le orecchie, stringeva le pupille, arruffava il pelo e poi, aaaakkhhrrr, aaackrrr, ppffuu, ppffu, akkkrrr, mostrando i denti, quasi si stesse predisponendo all’attacco.
Valeria, nonostante avesse adottato, per l’occasione, un aspetto particolarmente amorevole e affettuoso e dimostrato gesti assai misurati e gentili nei confronti del soriano, non era riuscita ad accattivarselo. «Va bene, Tancredi pensaci tu!» - sbottò Valeria, un po’ delusa – «A me, questo bel micione ha dato picche! Peccato!» «Valeria, devi avere pazienza, è una bestiola complessa! Devi cercare di confonderti, con discrezione, nella sua storia» – rispose Tancredi, con un accenno di ironica derisione. «Eh, non “babbiamo”, per favore! Non vorrai mica psicanalizzare un povero micio» – ribatté, a tono, Valeria. «Ci mancherebbe! No, hai detto bene: è solo un povero micio. Quindi, aiutiamolo…» - proseguì l’uomo, sfoderando saggezza. «D’accordo, grande capo!» – convenne, sorridendo, la brava Valeria.
Un bacio appassionato suggellò il breve dialogo e il palese accordo. Era evidente che Liù, ormai, riconosceva il timbro della voce di Tancredi e gli era riconoscente per il fatto stesso che gli somministrasse il cibo. Gli altri erano estranei e come tali venivano trattati dal gatto. Anzi, il soriano si lasciò andare al vizio alimentare: dopo mesi di vacche magre e di intestino canterino, aveva preferito cibarsi esclusivamente di croccantini, tanto da non poterne più fare a meno. Tancredi assisteva puntualmente ad una scena esilarante, che lo sorprendeva e lo divertiva: il micione, dopo il solito giro per la campagna assolata, si ripresentava affamato e assetato e iniziava, non prima di aver ingollato un bel po’ d’acqua fresca da una seconda ciotola, a miagolare insistentemente, battendo, con le sue paffute zampette, pezzate di bianco, sull’anta della porta della veranda.
L’uomo era costretto, volente o nolente, ad aprire all’animale, che, alla sua vista, lo invitava ad abbassarsi sulle ginocchia, seguendo un rituale ben preciso. Liù guardava in direzione della principale ciotola, ormai vuota e ben leccata, poi usciva, vi si dirigeva di fretta. Quindi, tornava indietro, dimenandosi, emetteva i suoi miao amorevoli, urtando la testolina pelosa contro le ostinate ed ossute ginocchia del professore, e lo esortava pietoso: «Ehi, tu, sciocco! Non lo vedi che ho una fame da lupo» sembrava apostrofarlo in modo palese. «Liù, a te manca solo il dono della parola, ma comunichi meglio di un oratore» – gli rispondeva un sorridente Tancredi – «Sei un gatto “mariolo”, ma unico e adorabile». Seguiva la fase del pronto riempimento del piccolo contenitore e il soriano si chetava. Il peso dell’animale era già considerevole e si notava lontano un miglio che Liù, adesso, se la passava bene.
Tancredi, in ogni caso, era lieto di sfamare il gattone; si immedesimava nelle passate vicende del felino e riteneva un successo aver fatto un’opera buona ad un micio, praticamente, abbandonato a sé stesso o, meglio, diseredato dal destino.
Egli si sentiva utile e si rallegrava che Liù fosse tornato e che, ora, stesse in discrete condizioni. D’altronde, l’altruismo è sempre ben remunerativo, lo pensava da quando era venuto al mondo ed anche la sua dolce consorte era di questo avviso.
Nella sua mente rimaneva indelebile l’episodio, di un’atrocità incredibile, cui aveva assistito durante uno di quei pomeriggi estivi, nei quali era solito rilassarsi su un dondolo cigolante, posto in un lato ombroso del giardino, dove spiccava, maestoso e fiero, quasi fosse un austero guerriero in guardia sull’avanzare minaccioso dei tempi, un vecchissimo platano. Lo chiamava “il verde patriarca”.
Avvenne tutto in un lampo; dalla siepe di bouganville e mortella, che delimitava il podere, nella parte posta a settentrione, sbucò il soriano che procedeva claudicante. Evidentemente, il gatto si era ferito alla zampetta destra anteriore con una grossa e dolorosa spina di rosa.
Tancredi ne era certo, poiché più volte aveva notato come il micio fosse solito saltare giù da un alto muro in pietra che costeggiava, per un breve tratto, la siepe e, giusto nel punto di probabile atterraggio, svettavano dei superbi roseti, sicuramente stupendi di aspetto, ma micidiali proprio per il fatto di essere dotati di temibili aculei. Lo vide avvicinarsi con quella zampetta ciondolante e tenuta, a causa delle fitte lancinanti, sospesa in aria e ne ebbe un’indicibile tenerezza, una compassione che lo fece quasi piangere.
Liù rispose al suo richiamo con un miagolio flebile e Tancredi capì che l’animale aveva bisogno almeno di riposo. Infatti, l’uomo sapeva bene che Liù non si sarebbe fatto sfiorare neanche con un dito e che sarebbe stato del tutto inutile contattare il dottor Perrone, ossia un valente veterinario della città.
Tancredi, mentre il povero micio era ormai ad un tiro di schioppo da lui, fece il punto della situazione e cercò di escogitare qualcosa per poter curare l’amico a quattro zampe. Non fece a tempo, poiché la banda di Muso Nero - così l’aveva battezzata il professore - fece il suo minaccioso ingresso in giardino.
Era una combriccola di gatti rognosi e molesti che, da un bel po’, avevano individuato come vittima il solitario Liù.
I cinque gatti, lerci e arruffati, erano capeggiati da un enorme felino, interamente pezzato di nero e di bianco e con un’altra grande macchia nera a coprire il bieco occhio sinistro: si trattava di Muso Nero. […]
Gioacchino Di Bella, autore siciliano, nasce a Salemi, una città della Val di Mazara, nella provincia di Trapani, nel 1966.
Nel 1990, per Lalli editore, pubblica uno scritto giovanile di argomento vario dal titolo "Considerazioni, riflessioni e...poesie".
Dopo studi superiori classico umanistici, consegue nel 1999 la laurea in Materie Letterarie presso l'Università degli studi di Palermo.
Da quel medesimo anno, insegna Italiano, Storia e Geografia nella Scuola secondaria di I° grado.
Da sempre interessato alla scrittura e alla poesia, cura il proprio sito personale ed ha partecipato ad innumerevoli concorsi letterari nazionali ed internazionali ottenendo riconoscimenti e piazzamenti di rilievo.
Nel 2022 dà alle stampe due libri: un romanzo breve dal titolo “Liù il gatto che ruggiva” edito da Rosabianca edizioni di Roma e una silloge di oltre cento componimenti, ossia “Tracce di me a occidente” pubblicato da Porto Seguro di Firenze.
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