sabato 28 marzo 2020

Segnalazione Romanzo - TENTARE DI EMIGRARE NEL XXI SECOLO di Tiziana Lilò





Respiro Readers

vi segnaliamo l'uscita 

del  nuovo romanzo dell'autrice italiana Tiziana Lilò.











TITOLO: Tentare di emigrare nel XXI secolo

AUTRICE: Tiziana Lilò

CASA EDITRICE: Self Publishing

GENERE: Diario Di Viaggio

PAGINE: 364

PREZZO EBOOK: 6.99

DATA USCITA: Marzo 2020







Dopo anni di pensieri, parole, opere e omissioni, Tiziana e il boyfriend Damiano raggiungono l’obiettivo di partire per l’estero, alla ricerca di un luogo dove vivere in condizioni migliori rispetto a quelli che l’Italia offre.
La partenza è carica di aspettative e convinzioni, ma una volta nel paese straniero la vita da immigrati li obbliga a ridimensionarsi poiché la realtà non è facile, soprattutto perché lì si parla inglese!
Il diario di viaggio racconta le esperienze vissute nel 2008 (confessate in-/e consciamente) che mandano in confusione i due avventurieri, i quali faticano a capire se la scelta fatta sia quella giusta.
L’unica cosa certa è che stanno tentando di realizzare un sogno, bello o brutto che sia, e ciò non è da tutti… perché nella vita ci vuole coraggio, oltre a un pizzico di fortuna.
Da questa esperienza si impara molto sulla vita da espatriati, ma soprattutto si ha la conferma di alcuni luoghi comuni, come ad esempio: “Finché non vedi non credi”, ma soprattutto: “Chi fa da sé fa per tre”. Sempre e comunque.

L’obiettivo primario è quello di dimostrare che l'essere umano ha tutte le facoltà per raggiungere (o almeno, tentare di raggiungere) i propri sogni. L’importante è crederci veramente. E se quella vocina interiore continua imperterrita a consigliare di fare delle scelte, a volte anche drastiche, che vanno contro ogni corrente di pensiero che ci circonda (il riferimento è rivolto ai parenti e conoscenti), bisogna ascoltare lei, e non loro! Restano invece esclusi dall’elenco gli amici, perché quelli dovrebbero essere sempre accondiscendenti riguardo a certe decisioni… altrimenti perché mai sono stati inventati?!
L’obiettivo secondario è di mettere le carte in tavola, rendendo pubblico tutto, ma proprio tutto, quello che è successo in quei 220 giorni su suolo inglese, dimostrando che quel tempo non è andato perso! Insomma… anche stavolta IL DOVERE É STATO FATTO.

Una chicca: l’autrice, essendo una fan di Luciano Ligabue in quanto ritrova situazioni e sentimenti della sua vita nei testi di alcune canzoni, ha ottenuto nullaosta dalla Warner Chappell Music Italiana (a firma della Sig. ra S. Fiamingo) per personalizzare i titoli dei capitoli del libro attribuendogli frammenti dei testi scritti dal grande cantautore.




CAPITOLO 1 - VOGLIO UN MONDO ALL’ALTEZZA DEI SOGNI CHE HO.
• Martedì 22/01/2008
Dopo mesi di pensieri, progetti, disperazioni e paure, eccomi finalmente all’aeroporto di Orio al Serio, a Bergamo. Fortunatamente il volo è in orario perché non reggerei nemmeno dieci minuti di ritardo. Sono piuttosto ansiosa e ho passato la metà del viaggio in macchina che mi ha condotta fino a qui, piangendo. Non sapevo esattamente il motivo di quel comportamento, ma avevo un disperato bisogno di farlo. Forse perché ho salutato il mio gatto (Birba) con la consapevolezza che non lo rivedrò per un lungo periodo, o forse perché sto per realizzare finalmente il mio sogno... ma le riconosco: quelle erano lacrime di tristezza per la distanza che si stava facendo sempre più grande dalla mia casa, dai miei affetti, dalla vita che è stata fino a oggi.
Mio padre, alla guida, mi ha domandato il perché di quel pianto. <<Non so cos’altro fare.>> Ed era vero. Ormai non potevo fare nient’altro che lasciare sfogare le lacrime come un fiume in piena.
Erano due anni che io e il mio ragazzo, Damiano, ripetevamo di volercene andare.
Lontano da quel paesino fra le montagne dove siamo cresciuti, dall’ottusità di alcune persone che ti dicono cose che non vorresti sentire e senza che tu gliele abbia chieste, dai pranzi familiari tutti uguali, durante i quali si facevano identiche battute da anni. Lontano da quelli che si definiscono “amici” ma che in realtà ti chiamano soprattutto quando hanno bisogno. Lontano dai loro problemi, che spesso ci coinvolgevano. Insomma, eravamo stufi della noiosità di quella vita e di quelle vite dove l’obiettivo è avere un qualsiasi lavoro pur di guadagnarsi il minimo sindacale, sposarsi, fare un mutuo, mettere al mondo dei figli, con la frequente conclusione di ottenere un divorzio. Era forse questo il modo per diventare adulti? La mia vena cinica aveva detto no! Noi avremmo rotto le convenzioni e saremmo stati diversi. La routine non si sarebbe impossessata della nostra storia. Anzi, quest’esperienza l’avrebbe rafforzata, perché è proprio nei momenti più bui che si scopre quanto ci si ama.
Immaginavamo come sarebbe stato essere lontani chilometri e chilometri, solo io e lui. In un luogo nuovo e sconosciuto, all’estero. La nostra meta, infatti, sarebbe andata oltreconfine. Allontanandoci da quest’Italia che ci aveva esasperato con le sue truffe, gli sprechi, un governo che sfama un numero esagerato di politici, nessuno dei quali in grado di dirigere coerentemente il Paese e permettendo agli italiani di vivere serenamente. Io avevo il pallino per l’estero da anni quando, a causa della separazione dei miei genitori, i dodici mesi che avrei dovuto trascorrere come ragazza alla pari negli Stati Uniti, si erano ridotti drasticamente a tre. La voglia di fare un’altra esperienza oltremare era rimasta, radicandosi ogni giorno di più. Questa volta non ci sarebbero stati divorzi che mi avrebbero fatto preparare le valigie in fretta e rientrare per raccogliere i cocci. Avrei pensato soltanto a me stessa. Alcuni amici già allora mi avevano consigliato di non tornare, proseguendo per la mia strada. Credo, però, di avere un cuore e pertanto, saputo quello che stava accadendo, sfido chiunque a far finta di niente. Anche se alla fine non avevo ottenuto ciò che desideravo, non posso rimpiangere di non aver provato a farli ragionare per rimanere una famiglia unita, ma ormai ogni decisione era stata presa e la vita, come si suol dire, va avanti.
Decidere dove andare non era stato difficile. Il mio obiettivo è ancora l’America, ma un detto dice: “chi va piano, va sano e va lontano”, pertanto le cose devono essere progettate step by step. Quindi, primo passo: imparare l’inglese. E quale migliore nazione per studiare questa lingua se non l’Inghilterra?
Per un caso fortuito avevamo scoperto che la sorella del mio compagno aveva un amico, da poco trasferitosi in Gran Bretagna. Costui, a quanto diceva, si trovava in una città ricca di lavoro per tutti. Non ci abbiamo impiegato molto a convincerci che quella sarebbe stata la nostra meta: Newcastle Upon Tyne.
La scelta era stata supportata da evidenti segni del destino (è così che chiamo quegli indizi che creano delle situazioni positive, dimostrando che il tutto evolve a favore. Quando ogni pezzo si incastra come in un puzzle, la via è corretta. Al contrario, quando le situazioni divengono negative è meglio gettare la spugna e correre ai ripari perché la catastrofe potrebbe essere imminente!).
Gli elementi che ci avevano fatto capire quale direzione intraprendere erano stati: la presenza di un college rinomato e gratuito; la presenza di una conoscenza italiana e originaria del nostro paese, quindi un Aggancio, che ci avrebbe sicuramente aiutato. Inoltre c’era stato riferito che le tasse erano distribuite equamente come i guadagni, non esistendo l’enorme spaccatura come quella creatasi in Italia, dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri più poveri. Per concludere, una compagnia low cost effettuava voli diretti Bergamo-Newcastle. Insomma: Dio salvi la Regina!
Al banco del check-in mi tornano in mente le motivazioni che ci hanno portato a essere qui in questo momento. Il nostro sogno si sta per realizzare.
Avendo a disposizione qualche minuto prima di oltrepassare i controlli della sicurezza, ci avviamo verso il bar e prendiamo posto a sedere nell’unico tavolino rimasto. Alla cassa un cartello avvisa della maggiorazione per il servizio al tavolo. In totale: due tè caldi e due birre in bottiglia costano a mio padre la modica cifra di 18.50 €. Neanche fossimo in Galleria Vittorio Emanuele a Milano. Fortuna che me ne vado da quest’Italia ladrona.
Sto sorseggiando il tè (che mi sta andando di traverso dopo aver sentito il prezzo che è stato pagato) quando mi squilla il cellulare. É mia madre: <<A che punto siete?>> <<Stiamo aspettando d’imbarcarci.>> <<Fate buon viaggio, in bocca al lupo e mandami un messaggio appena arrivate.>> Improvvisamente ho gli occhi colmi di lacrime. Le rispondo velocemente: <<Ok. Crepi. Ci sentiamo.>> e riattacco. Spero non abbia capito che avevo un nodo alla gola. Alzo lo sguardo e scopro i miei accompagnatori a fissarmi. <<Era la mamma.>> comunico facendo finta che quelle che stanno rigando le guance non siano lacrime. <<O santo cielo. Se questa è la tua reazione solo sentendo tua madre al telefono, chissà cosa farai con me che sono qui di fronte.>> <<Conviene che andiamo. Il vostro parchimetro è già scaduto da cinque minuti.>> ribatto come se non avessi sentito la battuta di mio padre.
Ci avviciniamo all’uscita. É giunto il momento dei saluti. <<Andate a farvi un giro al centro commerciale qui di fronte?>> domando per smorzare la tristezza. <<Credo di sì. Abbiamo percorso tutta questa strada, tanto vale sfruttare la cosa.>> risponde mio padre. Senza ascoltare la risposta e senza pensarci ulteriormente, lo abbraccio. Non resisto più, le lacrime cominciano a scendere come una diga a cui si sono rotti gli argini. Lui mi stringe a sé. <<State attenti e come vi ho già detto: siete la nostra speranza. Se ci fosse la possibilità di un trasferimento anche per noi, prepariamo le valigie e vi raggiungiamo. Qui ormai non si risolve più nulla, anzi! L’Italia andrà sempre peggio.>> Credo di non riuscire a superare questo attimo. Piango come una bambina alla quale è stata strappata dalle mani la sua bambola preferita. Le uniche parole che riesco a dire sono: <<Tu prenditi cura del mio Birba.>> <<Stai tranquilla, è in buone mani.>> e mi stringe ancora più forte.
Tento di staccarmi, anche se preferirei rimanere così per ore, e mi volto verso Antonella, la sua compagna. Anche lei è in lacrime. Come da copione in un telefilm americano, l’abbraccio. Contemporaneamente Dami sta salutando mio padre, il quale si raccomanda di aver cura della figliola. Non resisto e decido di abbracciarlo ancora, mentre un altro pianto scoppia più forte. <<Se non te la senti di fare questo passo, non sei obbligata.>> mi sussurra all’orecchio. Ha ragione, non c’è nessuno che mi sta puntando una pistola alla tempia, ma lo devo fare. Perché? Perché credo che la mia fortuna non sia dove ho vissuto fino a ora, credo che la vita ti dia sempre una seconda possibilità e che sia quella migliore, credo che una tale esperienza mi aprirà delle porte… ma devo ammettere che in questo preciso istante penso fermamente di essere una masochista. Il dolore che sto provando è inesprimibile. Ecco quello che sinceramente credo.
Decido finalmente di lasciarli andare. <<Vi mando un messaggio al nostro arrivo.>> sono queste le uniche parole che mi escono. Preferisco voltarmi e avviarmi verso il gate. Proprio non ce la faccio a vederli allontanarsi.
Gli occhi gonfi quasi m’impediscono di vedere la strada. Superati anche i controlli per i documenti, prendiamo posto nella sala d’attesa. <<Vado a prendere qualcosa da mangiare perché sarà tardi quando giungeremo a destinazione.>> dice Dami. <<Ti aspetto.>> e nel mentre mi asciugo le guance completamente bagnate. <<Piccola, mi dispiace vederti in questa condizione.>> <<Non preoccuparti. Per me prendi un panino qualsiasi.>> lo liquido. Mi stampa un bacio sulla fronte e si avvia verso il bar. Nell’attesa rimango immobile, con lo sguardo fisso verso un punto senza fine, insignificante, continuando con tranquillità a struggermi in quel dolore che sento vitale. Le persone intorno mi guardano di sott’occhio, incuriositi dal motivo di quelle lacrime. Differenti pensieri attraversano la mente, tutti rivolti alla figura di mio padre. Mi manca. Mi reputo una stronza per tutte le situazioni in cui me la prendevo con lui, quando mi arrabbiavo per delle questioni che solo ora considero banali, come il fatto che frequentemente strilla per il mio disordine, che dopo due anni non ha ancora finito di montare un mobile, che pur di risparmiare utilizza lampadine da 40 Watt per il lampadario di colore rosso della cucina, creando un’ambiente similare a quello di una camera oscura per lo sviluppo delle fotografie. Questa sensazione è stranissima. In un attimo, ciò che mi faceva incazzare dandomi lo stimolo a preparare i bagagli per andarmene lontano, non mi appare più così drastico. Quasi quasi lo richiamo per dirgli che non parto più. Solo l’idea mi fa già sentire meglio. Cerco di mantenere la razionalità limitandomi a fargli una telefonata. <<Mi sono dimenticata di dirti una cosa. Quando ieri sono andata dal nonno, mi ha salutato augurandomi di diventare subito ricca.>> gli dico imitando la voce da uomo. <<Avrebbe fatto meglio a evitare di dirti una frase del genere! Quando vado al casinò e mi augura buona fortuna, non vinco mai!>> mi sento rispondere. <<Però mi ha fatto ridere. Sai com’è fatto, è di poche parole ma quando apre bocca le spara grosse.>> <<Ti è passata la tristezza?>> mi domanda. <<Insomma…>> Il nodo in gola si è ripresentato, strozzandomi. <<Ti devo salutare.>> Eccomi: sono di nuovo una fontana. Uff. Che giornata. Eppure quando ero partita per l’America con la consapevolezza di vivere lì un anno intero, non ho versato una lacrima. É proprio vero. Più si diventa vecchi, e più si diventa molli.
Stiamo per salire sull’aereo. Nel tragitto con la navetta che ci conduce all’aeromobile continuo a guardare verso il parcheggio dell’aeroporto. Magari riesco ancora a vederlo. Sarebbe un segno del destino che non devo partire. Osservo attentamente, ma ci sono centinaia di macchine e la mia vista non è proprio come quella di un falco. Anzi, assomiglia a quella di una talpa.
Quando l’hostess vede lo stato pietoso nel quale mi ritrovo, educatamente domanda se necessito di fazzolettini. Con un filo di voce le rispondo un: <<Thanks.>> mostrandole il pacchettino che ho in mano. La sua gentilezza mi fa sentire ancora più triste. Mi siedo, non so nemmeno dove. Prima di spegnere il cellulare leggo i due SMS in arrivo. Il primo è di mia cugina: “Vi auguro buon viaggio e se non sai a chi lasciare il gatto me ne occupo io così lo cucino con la polenta.” Questo almeno mi fa sorridere. Il secondo è di mio papà: “Ricordati che sei una ragazza forte e in gamba. Sono con te nella mente e nel cuore.” Questo mi devasta definitivamente.
L’aereo decolla, mentre maniacalmente continuo a guardare verso terra. <<Ciao papi.>> mi ritrovo a sussurrare. Dentro di me, in mezzo a quelle macchine che si fanno sempre più piccole, inconsciamente lo sto ancora cercando. A volte credo seriamente che la pazzia non abbia limiti.
Per la prima ora il pianto è continuo. <<Dami non ho più fazzoletti. Per favore puoi prendermene altri nel bagaglio a mano?>> Gentilmente si alza per tirare fuori ciò che mi serve dalla cappelliera. Ho quasi finito di asciugarmi tutte le lacrime quando, probabilmente dal pianto o dalla stanchezza, inizio a essere infreddolita. <<Dami mi prendi la giacca?>> Pazientemente si rialza. Brr, fa proprio freddo su quest’aereo. <<Dami dimenticavo, mi prenderesti anche dell'acqua?>> Forse avrebbe voglia di mandarmi a quel paese ma è consapevole che c’è già l'angoscia a logorarmi, pertanto evita. Poi, per sua fortuna, mi assopisco.
Mi risveglio frastornata. Come prima cosa tolgo le lenti (un consiglio dal cuore: mai piangere con le lenti a contatto. Quando iniziano a seccarsi, si prova un dolore che impedisce di tenere aperte le palpebre e col risultato di avere due occhi gonfi come la rana Kermit dei Muppets). <<Dami ho bisogno subito del porta-lenti.>>
Per trascorrere gli ultimi trenta minuti di volo decido di leggere quello che diventerà la mia bibbia: “Impara e migliora rapidamente il tuo inglese”, ma dubito di capirci qualcosa. Ho la testa che scoppia. Apro una pagina a caso, ed eccolo lì. Un pelo nero, lungo quattro centimetri. Non un pelo nero qualsiasi… è QUEL pelo nero. Lo riconoscerei tra milioni. É il suo, di lui, del mio Birba! Mi volto verso Dami che ha seguito l'intera scena. Ci guardiamo. Non resisto. Scoppio di nuovo a piangere. Per tutto il tempo precedente ho pensato a quanto mi sarebbe mancato il mio papi. Con il suo caratteraccio ma alla fine, come dicono in tanti, è un buono. Non mi ero concentrata sul mio pelosetto, l’amore della mia vita, il mio micione. Birba, Birbaaa, Birbaaaaaa!!! Chissà per quanto tempo non ti rivedrò! Con chi farò colazione la mattina? E chi mi scalderà i piedi nel letto durante la notte? Come farò senza le tue fusa e i guai che combini? La disperazione avanza.
Sono le 20:15, ora inglese, quando finalmente atterriamo.
Come si poteva immaginare, c'è la pioggia ad attenderci. Ci dirigiamo alla metro che, direttamente dall’aeroporto, ci conduce nei pressi del B&B dove alloggeremo per alcuni giorni (sperando siano limitati), finché non troveremo una casa. Avviso immediatamente chi devo tramite messaggi.
Alle nove (le dieci in Italia) non mi è ancora arrivato l'SMS che deve avvisarmi dell’arrivo a casa di mio padre. Oddio, non sarà successo qualcosa? Non me lo potrei mai perdonare. L’ansia inizia a salirmi, ma dopo qualche secondo: “Siamo arrivati in questo istante. Al centro commerciale abbiamo trovato verze, insalate, carote e cipolle a cinquanta centesimi al chilogrammo. Proprio alla nostra portata.” Meno male che almeno lui riesce a scherzare. Bip, bip. Chissà cosa mi risponde mia madre. Le ho scritto che durante il viaggio non ho fatto altro che piangere. <<Dai Titty, tu sei una ragazza volitiva e vedrai che la buona sorte vi aiuterà. Te lo dice la vecchia. Notte.>> Se non si fosse ancora capito, nella mia famiglia siamo parecchio superstiziosi.



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