Respiro Readers
vi segnaliamo l'uscita
del nuovo romanzo dell'autrice italiana Tiziana Lilò.
TITOLO: Tentare di emigrare nel XXI secolo
AUTRICE: Tiziana Lilò
CASA EDITRICE: Self Publishing
GENERE: Diario Di Viaggio
PAGINE: 364
PREZZO EBOOK: 6.99
DATA USCITA: Marzo 2020
Dopo anni di pensieri, parole, opere e omissioni, Tiziana e il boyfriend Damiano raggiungono l’obiettivo di partire per l’estero, alla ricerca di un luogo dove vivere in condizioni migliori rispetto a quelli che l’Italia offre.
La partenza è carica di aspettative e convinzioni, ma una volta nel paese straniero la vita da immigrati li obbliga a ridimensionarsi poiché la realtà non è facile, soprattutto perché lì si parla inglese!
Il diario di viaggio racconta le esperienze vissute nel 2008 (confessate in-/e consciamente) che mandano in confusione i due avventurieri, i quali faticano a capire se la scelta fatta sia quella giusta.
L’unica cosa certa è che stanno tentando di realizzare un sogno, bello o brutto che sia, e ciò non è da tutti… perché nella vita ci vuole coraggio, oltre a un pizzico di fortuna.
Da questa esperienza si impara molto sulla vita da espatriati, ma soprattutto si ha la conferma di alcuni luoghi comuni, come ad esempio: “Finché non vedi non credi”, ma soprattutto: “Chi fa da sé fa per tre”. Sempre e comunque.
L’obiettivo primario è quello di dimostrare che l'essere umano ha tutte le facoltà per raggiungere (o almeno, tentare di raggiungere) i propri sogni. L’importante è crederci veramente. E se quella vocina interiore continua imperterrita a consigliare di fare delle scelte, a volte anche drastiche, che vanno contro ogni corrente di pensiero che ci circonda (il riferimento è rivolto ai parenti e conoscenti), bisogna ascoltare lei, e non loro! Restano invece esclusi dall’elenco gli amici, perché quelli dovrebbero essere sempre accondiscendenti riguardo a certe decisioni… altrimenti perché mai sono stati inventati?!
L’obiettivo secondario è di mettere le carte in tavola, rendendo pubblico tutto, ma proprio tutto, quello che è successo in quei 220 giorni su suolo inglese, dimostrando che quel tempo non è andato perso! Insomma… anche stavolta IL DOVERE É STATO FATTO.
Una chicca: l’autrice, essendo una fan di Luciano Ligabue in quanto ritrova situazioni e sentimenti della sua vita nei testi di alcune canzoni, ha ottenuto nullaosta dalla Warner Chappell Music Italiana (a firma della Sig. ra S. Fiamingo) per personalizzare i titoli dei capitoli del libro attribuendogli frammenti dei testi scritti dal grande cantautore.
CAPITOLO 1 -
VOGLIO UN MONDO ALL’ALTEZZA DEI SOGNI CHE HO.
• Martedì
22/01/2008
Dopo mesi di
pensieri, progetti, disperazioni e paure, eccomi finalmente
all’aeroporto di Orio al Serio, a Bergamo. Fortunatamente il volo è
in orario perché non reggerei nemmeno dieci minuti di ritardo. Sono
piuttosto ansiosa e ho passato la metà del viaggio in macchina che
mi ha condotta fino a qui, piangendo. Non sapevo esattamente il
motivo di quel comportamento, ma avevo un disperato bisogno di farlo.
Forse perché ho salutato il mio gatto (Birba) con la consapevolezza
che non lo rivedrò per un lungo periodo, o forse perché sto per
realizzare finalmente il mio sogno... ma le riconosco: quelle erano
lacrime di tristezza per la distanza che si stava facendo sempre più
grande dalla mia casa, dai miei affetti, dalla vita che è stata fino
a oggi.
Mio padre, alla
guida, mi ha domandato il perché di quel pianto. <<Non so
cos’altro fare.>> Ed era vero. Ormai non potevo fare
nient’altro che lasciare sfogare le lacrime come un fiume in piena.
Erano due anni che io
e il mio ragazzo, Damiano, ripetevamo di volercene andare.
Lontano da quel
paesino fra le montagne dove siamo cresciuti, dall’ottusità di
alcune persone che ti dicono cose che non vorresti sentire e senza
che tu gliele abbia chieste, dai pranzi familiari tutti uguali,
durante i quali si facevano identiche battute da anni. Lontano da
quelli che si definiscono “amici” ma che in realtà ti chiamano
soprattutto quando hanno bisogno. Lontano dai loro problemi, che
spesso ci coinvolgevano. Insomma, eravamo stufi della noiosità di
quella vita e di quelle vite dove l’obiettivo è avere un qualsiasi
lavoro pur di guadagnarsi il minimo sindacale, sposarsi, fare un
mutuo, mettere al mondo dei figli, con la frequente conclusione di
ottenere un divorzio. Era forse questo il modo per diventare adulti?
La mia vena cinica aveva detto no! Noi avremmo rotto le convenzioni e
saremmo stati diversi. La routine
non si sarebbe impossessata della nostra storia. Anzi,
quest’esperienza l’avrebbe rafforzata, perché è proprio nei
momenti più bui che si scopre quanto ci si ama.
Immaginavamo come
sarebbe stato essere lontani chilometri e chilometri, solo io e lui.
In un luogo nuovo e sconosciuto, all’estero. La nostra meta,
infatti, sarebbe andata oltreconfine. Allontanandoci da quest’Italia
che ci aveva esasperato con le sue truffe, gli sprechi, un governo
che sfama un numero esagerato di politici, nessuno dei quali in grado
di dirigere coerentemente il Paese e permettendo agli italiani di
vivere serenamente. Io avevo il pallino per l’estero da anni
quando, a causa della separazione dei miei genitori, i dodici mesi
che avrei dovuto trascorrere come ragazza alla pari negli Stati
Uniti, si erano ridotti drasticamente a tre. La voglia di fare
un’altra esperienza oltremare era rimasta, radicandosi ogni giorno
di più. Questa volta non ci sarebbero stati divorzi che mi avrebbero
fatto preparare le valigie in fretta e rientrare per raccogliere i
cocci. Avrei pensato soltanto a me stessa. Alcuni amici già allora
mi avevano consigliato di non tornare, proseguendo per la mia strada.
Credo, però, di avere un cuore e pertanto, saputo quello che stava
accadendo, sfido chiunque a far finta di niente. Anche se alla fine
non avevo ottenuto ciò che desideravo, non posso rimpiangere di non
aver provato a farli ragionare per rimanere una famiglia unita, ma
ormai ogni decisione era stata presa e la vita, come si suol dire, va
avanti.
Decidere dove andare
non era stato difficile. Il mio obiettivo è ancora l’America, ma
un detto dice: “chi va piano, va sano e va lontano”, pertanto le
cose devono essere progettate step
by step.
Quindi, primo passo: imparare l’inglese. E quale migliore nazione
per studiare questa lingua se non l’Inghilterra?
Per un caso fortuito
avevamo scoperto che la sorella del mio compagno aveva un amico, da
poco trasferitosi in Gran Bretagna. Costui, a quanto diceva, si
trovava in una città ricca di lavoro per tutti. Non ci abbiamo
impiegato molto a convincerci che quella sarebbe stata la nostra
meta: Newcastle Upon Tyne.
La scelta era stata
supportata da evidenti segni del destino (è così che chiamo quegli
indizi che creano delle situazioni positive, dimostrando che il tutto
evolve a favore. Quando ogni pezzo si incastra come in un puzzle,
la via è corretta. Al contrario, quando le situazioni divengono
negative è meglio gettare la spugna e correre ai ripari perché la
catastrofe potrebbe essere imminente!).
Gli elementi che ci
avevano fatto capire quale direzione intraprendere erano stati: la
presenza di un college
rinomato e gratuito; la presenza di una conoscenza italiana e
originaria del nostro paese, quindi un Aggancio, che ci avrebbe
sicuramente aiutato. Inoltre c’era stato riferito che le tasse
erano distribuite equamente come i guadagni, non esistendo l’enorme
spaccatura come quella creatasi in Italia, dove i ricchi sono sempre
più ricchi e i poveri più poveri. Per concludere, una compagnia low
cost
effettuava voli diretti Bergamo-Newcastle. Insomma: Dio salvi la
Regina!
Al banco del check-in
mi tornano in mente le motivazioni che ci hanno portato a essere qui
in questo momento. Il nostro sogno si sta per realizzare.
Avendo a disposizione
qualche minuto prima di oltrepassare i controlli della sicurezza, ci
avviamo verso il bar
e prendiamo posto a sedere nell’unico tavolino rimasto. Alla cassa
un cartello avvisa della maggiorazione per il servizio al tavolo. In
totale: due tè caldi e due birre in bottiglia costano a mio padre la
modica cifra di 18.50 €. Neanche
fossimo in Galleria Vittorio Emanuele a Milano.
Fortuna che me ne vado da quest’Italia ladrona.
Sto sorseggiando il
tè (che mi sta andando di traverso dopo aver sentito il prezzo che è
stato pagato) quando mi squilla il cellulare. É mia madre: <<A
che punto siete?>> <<Stiamo aspettando d’imbarcarci.>>
<<Fate buon viaggio, in bocca al lupo e mandami un messaggio
appena arrivate.>> Improvvisamente ho gli occhi colmi di
lacrime. Le rispondo velocemente: <<Ok. Crepi. Ci sentiamo.>>
e riattacco. Spero non abbia capito che avevo un nodo alla gola. Alzo
lo sguardo e scopro i miei accompagnatori a fissarmi. <<Era la
mamma.>> comunico facendo finta che quelle che stanno rigando
le guance non siano lacrime. <<O santo cielo. Se questa è la
tua reazione solo sentendo tua madre al telefono, chissà cosa farai
con me che sono qui di fronte.>> <<Conviene che andiamo.
Il vostro parchimetro è già scaduto da cinque minuti.>>
ribatto come se non avessi sentito la battuta di mio padre.
Ci avviciniamo
all’uscita. É giunto il momento dei saluti. <<Andate a farvi
un giro al centro commerciale qui di fronte?>> domando per
smorzare la tristezza. <<Credo di sì. Abbiamo percorso tutta
questa strada, tanto vale sfruttare la cosa.>> risponde mio
padre. Senza ascoltare la risposta e senza pensarci ulteriormente, lo
abbraccio. Non resisto più, le lacrime cominciano a scendere come
una diga a cui si sono rotti gli argini. Lui mi stringe a sé.
<<State attenti e come vi ho già detto: siete la nostra
speranza. Se ci fosse la possibilità di un trasferimento anche per
noi, prepariamo le valigie e vi raggiungiamo. Qui ormai non si
risolve più nulla, anzi! L’Italia andrà sempre peggio.>>
Credo di non riuscire a superare questo attimo. Piango come una
bambina alla quale è stata strappata dalle mani la sua bambola
preferita. Le uniche parole che riesco a dire sono: <<Tu
prenditi cura del mio Birba.>> <<Stai tranquilla, è in
buone mani.>> e mi stringe ancora più forte.
Tento di staccarmi,
anche se preferirei rimanere così per ore, e mi volto verso
Antonella, la sua compagna. Anche lei è in lacrime. Come da copione
in un telefilm americano, l’abbraccio. Contemporaneamente Dami sta
salutando mio padre, il quale si raccomanda di aver cura della
figliola. Non resisto e decido di abbracciarlo ancora, mentre un
altro pianto scoppia più forte. <<Se non te la senti di fare
questo passo, non sei obbligata.>> mi sussurra all’orecchio.
Ha ragione, non c’è nessuno che mi sta puntando una pistola alla
tempia, ma lo devo fare. Perché? Perché credo che la mia fortuna
non sia dove ho vissuto fino a ora, credo che la vita ti dia sempre
una seconda possibilità e che sia quella migliore, credo che una
tale esperienza mi aprirà delle porte… ma devo ammettere che in
questo preciso istante penso fermamente di essere una masochista. Il
dolore che sto provando è inesprimibile. Ecco quello che
sinceramente credo.
Decido finalmente di
lasciarli andare. <<Vi mando un messaggio al nostro arrivo.>>
sono queste le uniche parole che mi escono. Preferisco voltarmi e
avviarmi verso il gate.
Proprio non ce la faccio a vederli allontanarsi.
Gli occhi gonfi quasi
m’impediscono di vedere la strada. Superati anche i controlli per i
documenti, prendiamo posto nella sala d’attesa. <<Vado a
prendere qualcosa da mangiare perché sarà tardi quando giungeremo a
destinazione.>> dice Dami. <<Ti aspetto.>> e nel
mentre mi asciugo le guance completamente bagnate. <<Piccola,
mi dispiace vederti in questa condizione.>> <<Non
preoccuparti. Per me prendi un panino qualsiasi.>> lo liquido.
Mi stampa un bacio sulla fronte e si avvia verso il bar.
Nell’attesa rimango immobile, con lo sguardo fisso verso un punto
senza fine, insignificante, continuando con tranquillità a
struggermi in quel dolore che sento vitale. Le persone intorno mi
guardano di sott’occhio, incuriositi dal motivo di quelle lacrime.
Differenti pensieri attraversano la mente, tutti rivolti alla figura
di mio padre. Mi manca. Mi reputo una stronza per tutte le situazioni
in cui me la prendevo con lui, quando mi arrabbiavo per delle
questioni che solo ora considero banali, come il fatto che
frequentemente strilla per il mio disordine, che dopo due anni non ha
ancora finito di montare un mobile, che pur di risparmiare utilizza
lampadine da 40 Watt per il lampadario di colore rosso della cucina,
creando un’ambiente similare a quello di una camera oscura per lo
sviluppo delle fotografie. Questa sensazione è stranissima. In un
attimo, ciò che mi faceva incazzare dandomi lo stimolo a preparare i
bagagli per andarmene lontano, non mi appare più così drastico.
Quasi
quasi lo richiamo per dirgli che non parto più.
Solo l’idea mi fa già sentire meglio. Cerco di mantenere la
razionalità limitandomi a fargli una telefonata. <<Mi sono
dimenticata di dirti una cosa. Quando ieri sono andata dal nonno, mi
ha salutato augurandomi di diventare subito ricca.>> gli dico
imitando la voce da uomo. <<Avrebbe fatto meglio a evitare di
dirti una frase del genere! Quando vado al casinò e mi augura buona
fortuna, non vinco mai!>> mi sento rispondere. <<Però mi
ha fatto ridere. Sai com’è fatto, è di poche parole ma quando
apre bocca le spara grosse.>> <<Ti è passata la
tristezza?>> mi domanda. <<Insomma…>> Il nodo in
gola si è ripresentato, strozzandomi. <<Ti devo salutare.>>
Eccomi: sono di nuovo una fontana. Uff. Che giornata. Eppure quando
ero partita per l’America con la consapevolezza di vivere lì un
anno intero, non ho versato una lacrima. É proprio vero. Più si
diventa vecchi, e più si diventa molli.
Stiamo per salire
sull’aereo. Nel tragitto con la navetta che ci conduce
all’aeromobile continuo a guardare verso il parcheggio
dell’aeroporto. Magari
riesco ancora a vederlo. Sarebbe un segno del destino che non devo
partire.
Osservo attentamente, ma ci sono centinaia di macchine e la mia vista
non è proprio come quella di un falco. Anzi, assomiglia a quella di
una talpa.
Quando l’hostess
vede lo stato pietoso nel quale mi ritrovo, educatamente domanda se
necessito di fazzolettini. Con un filo di voce le rispondo un:
<<Thanks.>>
mostrandole il pacchettino che ho in mano. La sua gentilezza mi fa
sentire ancora più triste. Mi siedo, non so nemmeno dove. Prima di
spegnere il cellulare leggo i due SMS in arrivo. Il primo è di mia
cugina: “Vi auguro buon viaggio e se non sai a chi lasciare il
gatto me ne occupo io così lo cucino con la polenta.” Questo
almeno mi fa sorridere. Il secondo è di mio papà: “Ricordati che
sei una ragazza forte e in gamba. Sono con te nella mente e nel
cuore.” Questo mi devasta definitivamente.
L’aereo decolla,
mentre maniacalmente continuo a guardare verso terra. <<Ciao
papi.>> mi ritrovo a sussurrare. Dentro di me, in mezzo a
quelle macchine che si fanno sempre più piccole, inconsciamente lo
sto ancora cercando. A
volte credo seriamente che la pazzia non abbia limiti.
Per la prima ora il
pianto è continuo. <<Dami non ho più fazzoletti. Per favore
puoi prendermene altri nel bagaglio a mano?>> Gentilmente si
alza per tirare fuori ciò che mi serve dalla cappelliera. Ho quasi
finito di asciugarmi tutte le lacrime quando, probabilmente dal
pianto o dalla stanchezza, inizio a essere infreddolita. <<Dami
mi prendi la giacca?>> Pazientemente si rialza. Brr,
fa proprio freddo su quest’aereo.
<<Dami dimenticavo, mi prenderesti anche dell'acqua?>>
Forse avrebbe voglia di mandarmi a quel paese ma è consapevole che
c’è già l'angoscia a logorarmi, pertanto evita. Poi, per sua
fortuna, mi assopisco.
Mi risveglio
frastornata. Come prima cosa tolgo le lenti (un consiglio dal cuore:
mai piangere con le lenti a contatto. Quando iniziano a seccarsi, si
prova un dolore che impedisce di tenere aperte le palpebre e col
risultato di avere due occhi gonfi come la rana Kermit dei Muppets).
<<Dami ho bisogno subito del porta-lenti.>>
Per trascorrere gli
ultimi trenta minuti di volo decido di leggere quello che diventerà
la mia bibbia: “Impara e migliora rapidamente il tuo inglese”, ma
dubito di capirci qualcosa. Ho la testa che scoppia. Apro una pagina
a caso, ed eccolo lì. Un pelo nero, lungo quattro centimetri. Non un
pelo nero qualsiasi… è QUEL pelo nero. Lo riconoscerei tra
milioni. É il suo, di lui, del mio Birba! Mi volto verso Dami che ha
seguito l'intera scena. Ci guardiamo. Non resisto. Scoppio di nuovo a
piangere. Per tutto il tempo precedente ho pensato a quanto mi
sarebbe mancato il mio papi. Con il suo caratteraccio ma alla fine,
come dicono in tanti, è un buono. Non mi ero concentrata sul mio
pelosetto, l’amore della mia vita, il mio micione. Birba, Birbaaa,
Birbaaaaaa!!! Chissà per quanto tempo non ti rivedrò! Con chi farò
colazione la mattina? E chi mi scalderà i piedi nel letto durante la
notte? Come farò senza le tue fusa e i guai che combini? La
disperazione avanza.
Sono le 20:15, ora
inglese, quando finalmente atterriamo.
Come si poteva
immaginare, c'è la pioggia ad attenderci. Ci dirigiamo alla metro
che, direttamente dall’aeroporto, ci conduce nei pressi del B&B
dove alloggeremo per alcuni giorni (sperando siano limitati), finché
non troveremo una casa. Avviso immediatamente chi devo tramite
messaggi.
Alle nove (le dieci
in Italia) non mi è ancora arrivato l'SMS che deve avvisarmi
dell’arrivo a casa di mio padre. Oddio,
non sarà successo qualcosa?
Non
me lo potrei mai perdonare.
L’ansia inizia a salirmi, ma dopo qualche secondo: “Siamo
arrivati in questo istante. Al centro commerciale abbiamo trovato
verze, insalate, carote e cipolle a cinquanta centesimi al
chilogrammo. Proprio alla nostra portata.” Meno male che almeno lui
riesce a scherzare. Bip, bip. Chissà cosa mi risponde mia madre. Le
ho scritto che durante il viaggio non ho fatto altro che piangere.
<<Dai Titty, tu sei una ragazza volitiva e vedrai che la buona
sorte vi aiuterà. Te lo dice la vecchia. Notte.>> Se non si
fosse ancora capito, nella mia famiglia siamo parecchio
superstiziosi.
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