Respiro Readers
vi segnaliamo un il secondo romanzo
dell'autore italiano Simone Rausi : si tratta di una "storia musicale",
un racconto di
tre vite sovrapposte che mostra come, a volte, per
essere
se stessi
serva qualcun altro.
Arriva nelle librerie e nei principali digital store Libera per
tutti, il
secondo romanzo di Simone Rausi edito da
Scatole Parlanti.
TITOLO: Libera per tutti
AUTORE: Simone Rausi
CASA EDITRICE: Scatole Parlanti Editore
COLLANA: Voci
PAGINE: 190
- EAN: 9788832811063
DATA USCITA: 5 Ottobre 2018
"Certe cose non si scoprono. Semmai, si coprono". Angelica è lesbica e vive una vita in ombra, tra appuntamenti al buio e bugie, in un piccolo paese del Sud Italia. Claudio sta per compiere trent'anni e ha un sogno che non riesce a realizzare a causa del suo nome. Letizia sparisce di continuo in viaggi misteriosi, non riesce a separarsi dalla Bibbia, ma il suo legame con Dio nasconde un segreto. Tutti mentono, ma uno di loro cambierà per sempre la vita degli altri. Cosa siamo disposti a fare per trovare il nostro posto nel mondo? Quello che siamo ci somiglia davvero? Conosciamo realmente le persone che ci stanno accanto? Libera per tutti è la storia profonda e appassionata di tre vite sovrapposte. Un romanzo intenso, che mostra come a volte per essere se stessi serva qualcun altro.
Libera
per tutti,
il libro che racconta l’omosessualità femminile e la ricerca
dell’identità con le musiche dei Coldplay e stralci di brani
inediti.
Arriva nelle librerie e nei principali digital store Libera per
tutti, il secondo romanzo di Simone Rausi edito da
Scatole Parlanti.
Il romanzo affronta temi come la ricerca della propria identità,
l’accettazione di sé e la difficoltà che a volte si prova
nello star bene nei propri panni. A chi non è mai capitato di
sentirsi dire “Questo non è da te”? Quanti si sono ritrovati ad
essere quello che sono oggi per fare felici la famiglia, il marito o
gli amici? È quello che succede ai tre protagonisti:
Angelica, una ragazza lesbica ma omofoba.
Claudio, un trentenne ipocondriaco che non può
realizzare il suo sogno “per colpa” del suo nome. Letizia,
un’animalista fanatica della Bibbia che sa come lasciare il segno.
Il libro è un romanzo “a specchio”: le storie di Angelica
e Claudio scorrono parallele raccontando le stesse emozioni da punti
di vista molto differenti. Ogni capitolo di Angelica si apre con
l’estratto di un successo dei Coldplay che ne anticipa il
contenuto. Ogni capitolo di Claudio, invece, si chiude con stralci di
brani completamente inediti che ne riassumono il senso.
Letizia è il personaggio che spariglia le carte in tavola.
Il tema dell’omosessualità femminile è centrale. Ecco un
estratto del primo capitolo:
“Angelica era lesbica e non l’aveva capito, non l’aveva
“scoperto”. Capire e scoprire sono due verbi che coinvolgono
necessariamente qualcosa di sconosciuto fino a quel momento. Si
capiscono le divisioni in colonna a scuola e si scoprono nuovi
pianeti quando ci si spinge oltre i propri orizzonti. Il proprio
corpo e la propria vita invece no. Si vive con se stessi da sempre e
per sempre e certe cose non si scoprono all’improvviso, semmai, si
coprono”.
In merito all’argomento, l’autore ha detto: “Le prime
persone che hanno letto il libro mi proposto di evitare di usare la
parola ‘lesbica’ perché giudicata troppo forte”. Parlo di
persone che si definiscono estremamente moderne e aperte. Persone che
vivono in una società in cui certe parole, come lesbica, risultano
fastidiose. Il libro è pieno di parole forti. La vita di Angelica ne
è piena. Resterete molto sorpresi dallo scoprire quanto possano
essere diverse le persone che si presentano ai nostri occhi. Angelica
finirà per comportarsi come nessuno, neanche lei, aveva mai
immaginato. Scoprirà di essere davvero se stessa solo rompendo le
regole”.
Libera per tutti esce il 5 ottobre 2018 in libreria e nei principali
digital store.
1.
Angelica
Ventisette, ventotto, ventinove e trenta. Aveva chiuso il
rubinetto e si era girata verso l’asciugamano. Per una corretta
igiene, le mani vanno lavate per almeno trenta secondi, lo aveva
letto in una di quelle riviste che sua madre teneva nel cesto di
vimini in bagno. Una di quelle con la modella o la velina di turno in
copertina, pronta a confessarti che per essere “belle naturali”
basta sorridere e fare lunghe passeggiate. Poi tutti a ingozzarsi di
pasta. Quelle riviste la tenevano in ostaggio, tra il lavandino e il
water, per intere mezz’ore. In quelle pagine c’era tutto ciò che
le interessava nella vita: belle donne e regole di igiene. Si stava
strofinando le mani con cura sul morbido cotone dell’asciugamano,
mentre il pensiero di toccare la maniglia della porta con la mano
umida le procurava ansia. L’umidità favorisce il proliferare
dei batteri. Era una di quelle verità assolute che aveva sentito
da qualche parte e che possedeva da tutta una vita. Non era
necessario trovare conferme o smentite. Lo sapeva da sempre, e sempre
è una buona garanzia di verità.
Aveva scelto con cura il jeans scuro e la camicia rossa, aveva
indugiato più volte sul terzo bottone, ma alla fine aveva deciso di
tenerlo chiuso. Si era raccolta i capelli in una bella coda alta che
le valorizzava il viso e infine aveva dato alla bocca una passata di
lucidalabbra. Guardò l’orologio e a malincuore zittì Chris Martin
che cantava con i Coldplay dentro il suo smartphone. Soffocò, mentre
prendeva aria per cantare il ritornello con il crescendo della
batteria quasi al culmine. Quell’ennesima attesa non valeva un
rullo di tamburi.
Angelica si mise una mano tra il petto e la pancia, dove la gastrite
stava incendiando ogni cosa. Ingoiò una caramella antiacido comprata
in farmacia e si premette il pugno sopra lo stomaco, come per
spegnere una enorme sigaretta sulla “bocca dell’anima”, così
come la chiamava sua nonna. La sua era un posacenere. Nero e sporco.
Fece un lungo respiro davanti alla porta della sua stanza con una
sensazione d’acido che si arrampicava ingordo fino alla bocca.
Chiuse gli occhi e ingoiò l’ennesimo boccone amaro.
Era pronta.
«Con chi esci?» le aveva chiesto sua madre. «I soliti!» aveva
risposto l’eco del pianerottolo. Angelica da qualche mese usciva di
casa come si farebbe in caso d’incendio. Così i suoi genitori
parlavano con delle voci, manco fossero dei medium: voci provenienti
dalla stanza in fondo al corridoio, voci ovattate di un cellulare
sempre senza campo, voci basse e approssimative che facevano lo
slalom tra il non detto e l’omesso, senza mai scivolare. Era meglio
ridurre al minimo i convenevoli, fare in modo che i suoi non
facessero troppe domande. “I soliti” con cui usciva Angelica per
sua madre non erano soliti per niente. Erano solo dei nomi che non si
collegavano a nessuna delle facce degli amici della figlia che in
passato erano entrati in quella casa. Nomi che spesso cambiavano e
che – per vestirsi di un po’ di credibilità – suonavano
vagamente esotici o stravaganti. Non c’era tempo per la seconda
domanda. La velocità è da sempre l’abilità dei bugiardi, la
principale capacità di quelle persone che ogni giorno corrono i
cento metri delle cazzate, quelli che scattano veloci cercando una
via di fuga ma non riescono a resistere alle lunghe distanze.
La madre di Angelica era una cinquantenne che dimostrava almeno dieci
anni in meno. La sua giornata era scandita dai programmi di Maria De
Filippi, una sorta di spirito guida della sua vita. Quando si trovava
ad affrontare un problema o una difficoltà, qualcosa che spezzasse
la sicurezza delle sue giornate, la mamma di Angelica faceva un lungo
respiro e pensava: Cosa farebbe adesso Maria? Era sempre stata
una gran chiacchierona e amava condividere la vita della figlia.
Condividere su Facebook, chiaramente.
La signora Adele, occhi verdi e capelli perennemente arruffati,
vedeva in Angelica la massima espressione di quel bello che aveva
sempre sognato per lei. Era particolarmente orgogliosa della figlia,
ma viveva nell’illusoria e rassicurante proiezione di decenni ormai
passati: gli anni in cui Angelica le raccontava la sua giornata di
ritorno da scuola e poi faceva ridere tutti a tavola con le
imitazioni dei familiari. Tra le due, improvvisamente e senza un
apparente motivo, si era alzato un muro, o meglio, una sorta di
specchio pronto a riflettere immagini piene di bugie, che sembrano
attendibili ma si rivelano l’esatto contrario della verità. Uno
specchio pronto ad appannarsi con il fiato ogni volta che le due
provavano ad avvicinarsi troppo. Così Adele guardava Angelica, come
si guarderebbe a un bel paesaggio. La osservava con gli occhi
nascosti della sua Reflex acquistata dopo il corso online di
fotografia e rubava foto da condividere con i suoi centotrentotto
amici su Facebook. Ecco come Adele condivideva la vita della figlia,
su un social network.
Angelica era bella senza avere la presunzione di esserlo. Come quelle
frasi dei bambini dette senza intenzione che riescono a spiazzare per
profondità e innocenza. Capelli e occhi castani, una carnagione
chiara. Cromaticamente comune ma incredibilmente unica nel suo
insieme, armoniosa e perfettamente fuori tono con il resto del mondo.
Anche la dinamica delle forme sembrava essere progettata sulla base
di calcoli e teoremi. Tutto era troppo, dall’altezza al seno. Uno
di quei troppo senza accezione negativa, un troppo incredibilmente
misurato.
Angelica però non condivideva né con la madre né su Facebook, un
amplificatore di solitudine che aveva spento qualche mese fa.
D’altronde, come poteva essere trasparente quando sentiva di vivere
una vita torbida, come raccontare chi era se anche lei non aveva la
risposta?
In Piazza Duomo la attendeva una trentaduenne dai capelli neri patita
delle Harley-Davidson. Questo era tutto quello che sapeva.
Si era fermata con la macchina nel primo parcheggio libero, era in
anticipo di quasi venti minuti. Troppi. Fuori dai finestrini c’era
la sera che precipitava sul Duomo. Poche luci, troppa gente. Il
rumore del suo respiro sembrava in dolby digital surround. Prendeva
tutta l’aria che poteva, contava da uno a cinque senza muovere un
muscolo e poi buttava tutto fuori fino a sentir cedere il corpo. A
uscire, però, c’era solo il fiato, i timori e le ansie restavano
dentro. Lo faceva per quattro volte come era scritto sulla rivista
del bagno ed era l’unico rimedio all’ansia che non costava nulla
e non necessitava dell’aiuto di qualcun altro.
L’autoradio vomitava una canzonetta pop stucchevole e incessante. I
bassi ipnotici del ritornello in serie esplodevano nevrotici dentro
l’abitacolo e si ripetevano senza tregua rendendo il tempo viscoso
e l’attesa estenuante. Angelica prendeva piccole boccate d’aria e
assorbiva note grondanti di anestetico. Aspettava la fine di
quell’ennesimo “baby baby”, la fine di quei venti
minuti, la fine di quell’appuntamento.
Angelica era lesbica e non l’aveva capito, non l’aveva
“scoperto”. Capire e scoprire sono due verbi che coinvolgono
necessariamente qualcosa di sconosciuto fino a quel momento. Si
capiscono le divisioni in colonna a scuola e si scoprono nuovi
pianeti quando ci si spinge oltre i propri orizzonti. Il proprio
corpo e la propria vita invece no. Si vive con se stessi da sempre e
per sempre e certe cose non si scoprono all’improvviso, semmai, si
coprono. Angelica aveva sempre coperto tutto. L’interesse fuori
misura per le compagne di classe, l’eccitazione incontrollata nel
vedere i video sexy delle cantanti, le domande dalla risposta sempre
uguale. Arriva il momento, però, in cui sotto il tappeto non ci
entra più nulla, il giorno in cui si scoprono i fatti e tutta la
polvere accumulata negli anni si sparge ovunque, cadendo lenta,
offuscando anche i propri pensieri, entrando nei polmoni e togliendo
il respiro. Si era ritrovata senza fiato. Senza orientamento. E ci
aveva messo un po’ a capire dov’era. A capire chi era. Angelica
odiava essere lesbica. Odiava avere troppe certezze e non avere
alcuna sicurezza allo stesso tempo. Era certa: non si sarebbe
sposata. Non avrebbe avuto dei figli. Era insicura quando parlava di
sé, ogni parola che potesse confermare la sua identità era incerta,
sussurrata, tremante.
Angelica era davvero lei solo dietro i suoi occhi marroni, tutti
coloro che le stavano davanti guardavano una versione rieditata per
il grande pubblico. Se sei lesbica tutto è già deciso, e non hai
deciso tu, pensava spesso. Progettava di diventare abile
nell’arte della menzogna, di diventare brava a ignorare, così da
farsi scivolare addosso frasi e giudizi da evitare. A volte credeva
che tutto col tempo si sarebbe aggiustato ma, molto più spesso, era
convinta che gli anni, con il loro trascorrere e con la loro
indifferenza silenziosa, l’avrebbero condotta a una casa vuota come
la pancia che non sarebbe mai cresciuta, la stessa che da bambina
camuffava con un cuscino sotto la maglietta.
Angelica aveva sempre fatto il gioco della famiglia, come tutte le
bambine. Disegnava il vestito del suo matrimonio e componeva i pezzi
del suo principe azzurro. Quei sogni non c’erano più, ma aveva la
netta sensazione di non essere stata lei a spazzarli via. Aveva
provato a scegliere la sua vita, ma ogni fidanzato l’aveva rimessa
sulla strada originale. Perfino Chris Martin.
Questo tipo di pensieri le martellava in testa ogni volta che
aspettava il sonno tra il lenzuolo e il cuscino o attendeva in
macchina il nuovo appuntamento. Succedeva anche stavolta, mentre si
strofinava nervosamente le mani nell’Amuchina. Non le erano bastati
ventiquattro anni per trovare coraggio, per abituarsi alle sue
giornate che sentiva cupe e senza luce. E vivere senza luce voleva
dire avere paura. Ne aveva anche adesso che apriva lo sportello e
andava verso la notte scura, la sua vita in ombra e il suo
appuntamento al buio.
2.
Claudio
8.10 del mattino. Claudio emergeva nello specchio, sotto strati di
vapore denso, come un rifiuto portato dal mare dopo una mareggiata.
Aveva spalancato il suo logoro accappatoio blu petrolio e si era
messo a fissare la pancia. Era la sua ma ci stava dentro a malapena
come in un maglione della passata stagione, stretto e fuori moda.
Eccola lì, lei c’era.
Odiava passare inosservata e adesso, nel caso in cui qualcuno non
l’avesse ancora notata, si mostrava presuntuosa come una diva sul
palcoscenico. Era così morbida e rassicurante. Flessuosa. Gli veniva
voglia di cingerla con due mani, affondare le dita nella pelle
soffice e scuoterla, rivoltarla, osservare il suo ondeggiare
ipnotico.
La sua pancia era indiscutibilmente “uomo”. Era l’apoteosi
della femminilità ma era la cosa più maschile che si potesse
trovare nei trentenni come lui.
Ma quale barba, quali responsabilità!
La linea di transizione che separa i ragazzi dagli uomini è curva,
un semicerchio. Una bella pancia. Una pancia degna di questo nome è
quella che ti fa alzare la maglietta davanti a uno specchio e ti fa
restare mezzo minuto a fissarla.
Claudio si mise di profilo, soppesò con la mano tutto lo strato di
adipe che riusciva a prendere e poi richiuse l’accappatoio con uno
scatto nervoso. Tra cento giorni avrebbe compiuto trent’anni, e il
suo corpo glielo diceva.
Fino a qualche anno prima la sua pancia non esisteva, c’era un
ventre piatto di quelli che se ne fregano. Se ne fregano di quello
che mangi e di quanto ti muovi. Due anni di canottaggio e tre di
pallavolo buttati al vento, nulla in confronto ai temibili trenta. E
comunque bastava guardarsi in giro, non si poteva fare nulla. È
la natura, pensava.
Floride pance erano sbocciate sugli addomi di tutti i trentenni che
Claudio conosceva. Arrivavano così, all’improvviso, dopo mesi di
lievi gonfiori sottovalutati, presi sottogamba. Un lunedì indossavi
camicie stretch e per il fine settimana rischiavi di pisciare senza
vedertelo. La pancia era il simbolo della seconda pubertà di tutti i
maschi, quella che le femmine avevano vissuto molto prima, con il
festoso esplodere dei seni.
Il ventotto maggio Claudio avrebbe compiuto trent’anni ma la pancia
era l’ultimo dei suoi problemi. Questa è l’età in cui si
decide tutto. Adesso è il momento per capire se sarai qualcuno che
conta o se sarai uno come gli altri.
Poteva quasi vederlo, una specie di conto alla rovescia velocissimo,
sopra la sua testa. Sei cifre al led rosse che correvano e correvano.
Secondi, minuti, ore. Claudio lo sapeva di aver vissuto al fresco
fino a quel momento. Lo stesso fresco di un frigorifero dove metti il
latte da consumare entro tre giorni, prima che vada a male. Poteva
vederla la sua data di scadenza, era vicina ma lui era lontano, era
sempre indietro.
La sua mente volava in quella direzione ogni volta che era lasciata
libera e atterrava in un groviglio buio e fittissimo di sensi di
colpa.
Studente: fuori sede, fuori corso, fuori tempo, fuori peso. Mancavano
ancora cinque esami alla laurea in giurisprudenza, centinaia di
pagine che si portava dietro da un anno e mezzo e che ponevano la sua
laurea a una distanza indefinita. Ancora un altro anno? Due? Poco
importa, perché aspettare non serve a niente quando il tuo turno è
già passato. Sapeva che iniziare una carriera come quella di
avvocato a trenta anni suonati sarebbe stato impossibile. Dopo la
laurea c’era la scuola di specializzazione, il tirocinio,
l’abilitazione, i concorsi. Per i suoi genitori doveva fare il
magistrato. Lo avevano deciso un decennio prima, ma era come se lo
sapessero da sempre. Erano anche a conoscenza di concorsi per entrare
in Parlamento e di gente che diventava ministro da un giorno
all’altro, semplicemente inviando il curriculum alla sezione
“Lavora con noi” del sito www.ministri.it. I signori Baioni
credevano di sapere tante cose ma erano completamente sconnessi dalla
realtà, il loro era un mondo fatto di cugini di secondo grado che
facevano i notai, figli di amici divenuti dirigenti d’impresa,
ragazzetti cresciuti in fretta e insigniti dell’onorificenza di
professore universitario. E il loro figlio? L’unica strada di
Claudio, in un modo o nell’altro, doveva portare alla gloria. La
sua, ma soprattutto la loro. I signori Baioni erano completamente
ciechi di fronte alla crisi e guardavano con sdegno i laureati finiti
nei call center. Il deserto di offerte lavorative non era visibile ai
loro occhi, il rumore che facevano le speranze distrutte di buona
parte dei giovani non era udibile alle loro orecchie. Il suono
maestoso della parola “ingegnere”, l’ingegner Milella, il
figlio della Lorusso, quello sì che suonava forte e chiaro.
Claudio lo sapeva: ogni due weekend, quando percorreva i settantotto
chilometri per ritornare a casa, si trovava davanti un uomo stanco e
affaticato, con la testa piena di capelli grigi e cocciutaggine. Suo
padre non poteva accettare quanto dicesse il figlio: «Papà, io non
posso fare il magistrato, non lo farò mai, ho trent’anni e mi devo
ancora laureare». Era un’ipotesi poco realistica, da non prendere
nemmeno in considerazione. «Al limite farai l’avvocato» gli
diceva, «ma non qui, a Milano. E ti occuperai solo di tributario
perché altrimenti fai la fame».
Michele Baioni si era spaccato la schiena per oltre trent’anni,
sentiva di aver dato alla vita tutto ciò che poteva, ma era
cosciente di aver preso solo il marcio che c’era. Sapeva che le
incomprensioni con il figlio erano solo una questione di punti di
vista, perché le cose si mostrano in modo diverso a seconda di come
le guardi. Michele Baioni dalla vita aveva solo incassato. Ora era il
momento di cambiare il punto di vista, non più incassare come
sopportare senza reagire, ma incassare come riscuotere.
A cambiare il punto di vista doveva essere Claudio.
Era lui stesso che doveva cambiare tutto e invece non si cambiava
nemmeno la maglietta. Indossava la stessa polo blu da mesi. La
metteva per due o tre giorni, poi la rilavava la sera, solo quando
sapeva di non avere lezione l’indomani mattina e se la rinfilava il
pomeriggio. La polo blu era l’unico indumento che poteva
permettersi. Claudio non conosceva la povertà di quelli che non
hanno nulla da mettersi addosso, però conosceva la povertà dei
vestiti, quella della stessa polo blu sbiadita indossata per
settimane, una polo che raccontava tra le righe più di quello che
doveva. Era una povertà precaria, che mutava di continuo, dall’ansia
alla vergogna. La polo però era sempre la stessa perché i soldi
racimolati facendo il lavapiatti, l’agente di rappresentanza o il
cameriere, bastavano appena per l’affitto e un paio di pranzi. E
poi c’era la pancia dei trent’anni che aveva reso le altre tre
magliette chiuse nell’armadio dei top che nemmeno Britney Spears
avrebbe osato indossare.
I signori Baioni avevano smesso da tempo di salutare il figlio con
banconote da cinquanta euro e quando il lunedì mattina, dopo un
weekend dai suoi, Claudio si preparava per tornare a casa – quella
che ormai sentiva essere davvero casa sua, cioè la stanza in affitto
in un bilocale a settantotto chilometri dai suoi genitori – al
massimo gli lanciavano qualche spicciolo di commiserazione, lamento,
rimprovero e insoddisfazione. “E tieni pure il resto” sembravano
voler dire. In realtà, quegli spiccioli a Claudio pesavano come
macigni e non servivano nemmeno per la benzina della strada di
ritorno. Non aveva mai voluto occuparsi di diritto e aveva iniziato
l’università per volere dei suoi. Gli era sempre servito spazio,
come quello da dare ai suoi desideri, come quello in cui si era perso
come un astronauta matricola. Quella facoltà si era rivelata un buco
nero e quelle aule dei varchi spazio-temporali. Gli era scivolato
addosso un decennio e si era risvegliato in estremo ritardo, con la
consapevolezza di dover ottenere un lavoro, uno qualsiasi, purché
fosse “da grandi”, un lavoro da uomini. Anche perché lui era già
vecchio, almeno secondo la sua agenzia di lavoro interinale che si
era vista costretta a eliminare il suo profilo dal database dei
possibili candidati perché ritenuto “fuori tempo massimo”.
Non posso farmi dare la paghetta a trent’anni. Non posso farmi
trattare in questo modo. Non posso trattarmi in questo modo. Ma che
cazzo sto combinando? Mi devo sbrigare. Devo finire. Devo iniziare!
Eccolo un altro punto di vista di incassare ossia inserire
tutto in uno spazio ristretto: lavoro-studio-solditempo. Odiava
tornare a casa, anche solo per il weekend. Odiava restarci per più
di due giorni, i lamenti dei suoi genitori lo rendevano una persona
peggiore. Per questo faceva ogni tipo di lavoro, per poter vivere da
solo, come aveva fatto negli ultimi undici anni. Michele Baioni
commentava i lavori del figlio con la bocca impastata di disprezzo e
disgusto: lavorare per qualche centinaio di euro era vergognoso e
mortificante per tutta la famiglia, se ci fosse stata la nonna si
sarebbe vergognata anche lei. Ma Claudio doveva lavorare e più
lavorava e meno studiava. E il tempo scorreva. Di lì a qualche anno
non sarebbe più stato “idoneo” nemmeno per fare il cameriere.
Mezzanotte e tre minuti: novantanove giorni al mio trentesimo
compleanno.
La pancia era l’ultimo dei suoi problemi. Claudio aveva un fisico
atletico. Era alto un metro e ottantadue, spalle larghe, petto ampio,
braccia possenti e una pancia invadente. Un fisico ibrido, in
trasformazione. Un’evoluzione ancora incompleta tra prima e dopo,
ragazzo e uomo, speranze e fallimenti.
Il suo fallimento più grande non lo confidava quasi a nessuno. Lui
scriveva canzoni. Lo faceva da una vita, lo faceva bene ma sempre
meno. Rinunciare a quello che si pensa di saper fare meglio nella
vita è doloroso. Ma era stata una scelta obbligata perché con le
strofe e le rime non si paga l’assicurazione dell’auto e la
chitarra è meglio suonarla di notte, da soli.
Quello di voler fare il cantautore era un sogno inflazionato. Non si
poteva più dirlo a nessuno senza essere preso per uno di quelli che
pubblica su Facebook selfie con facce da videoclip. Tutti volevano
fare i cantautori, tutti restavano in fila sotto al sole per fare
parte del cast di questo o quel talent show. Bisognava trovarsi un
sogno vero, uno da poter raccontare con orgoglio, senza essere
scambiato per una versione appena più elevata della velina. Questo
era un sogno tarocco, inattendibile.
E poi, quando vuoi fare il cantautore e ti chiami Claudio Baioni, che
credibilità pensi di avere?
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