venerdì 12 ottobre 2018

Segnalazione Romanzo - LIBERA PER TUTTI di Simone Rausi









Respiro Readers

vi segnaliamo un il secondo romanzo

dell'autore italiano Simone Rausi : si tratta di una "storia musicale",

un racconto di tre vite sovrapposte che mostra come, a volte, per 

essere 

se stessi serva qualcun altro.

Arriva nelle librerie e nei principali digital store Libera per tutti, il 
secondo romanzo di Simone Rausi edito da Scatole Parlanti.  









TITOLO: Libera per tutti

AUTORE: Simone Rausi

CASA EDITRICE: Scatole Parlanti Editore

COLLANA: Voci

PAGINE: 190

  • EAN: 9788832811063

DATA USCITA: 5 Ottobre 2018








"Certe cose non si scoprono. Semmai, si coprono". Angelica è lesbica e vive una vita in ombra, tra appuntamenti al buio e bugie, in un piccolo paese del Sud Italia. Claudio sta per compiere trent'anni e ha un sogno che non riesce a realizzare a causa del suo nome. Letizia sparisce di continuo in viaggi misteriosi, non riesce a separarsi dalla Bibbia, ma il suo legame con Dio nasconde un segreto. Tutti mentono, ma uno di loro cambierà per sempre la vita degli altri. Cosa siamo disposti a fare per trovare il nostro posto nel mondo? Quello che siamo ci somiglia davvero? Conosciamo realmente le persone che ci stanno accanto? Libera per tutti è la storia profonda e appassionata di tre vite sovrapposte. Un romanzo intenso, che mostra come a volte per essere se stessi serva qualcun altro.






Libera per tutti, il libro che racconta l’omosessualità femminile e la ricerca dell’identità con le musiche dei Coldplay e stralci di brani inediti.
 Arriva nelle librerie e nei principali digital store Libera per tutti, il secondo romanzo di Simone Rausi edito da Scatole Parlanti.
Il romanzo affronta temi come la ricerca della propria identità, l’accettazione di sé e la difficoltà che a volte si prova nello star bene nei propri panni. A chi non è mai capitato di sentirsi dire “Questo non è da te”? Quanti si sono ritrovati ad essere quello che sono oggi per fare felici la famiglia, il marito o gli amici? È quello che succede ai tre protagonisti:
Angelica, una ragazza lesbica ma omofoba.
Claudio, un trentenne ipocondriaco che non può realizzare il suo sogno “per colpa” del suo nome. Letizia, un’animalista fanatica della Bibbia che sa come lasciare il segno.
Il libro è un romanzo “a specchio”: le storie di Angelica e Claudio scorrono parallele raccontando le stesse emozioni da punti di vista molto differenti. Ogni capitolo di Angelica si apre con l’estratto di un successo dei Coldplay che ne anticipa il contenuto. Ogni capitolo di Claudio, invece, si chiude con stralci di brani completamente inediti che ne riassumono il senso. Letizia è il personaggio che spariglia le carte in tavola.
Il tema dell’omosessualità femminile è centrale. Ecco un estratto del primo capitolo:
Angelica era lesbica e non l’aveva capito, non l’aveva “scoperto”. Capire e scoprire sono due verbi che coinvolgono necessariamente qualcosa di sconosciuto fino a quel momento. Si capiscono le divisioni in colonna a scuola e si scoprono nuovi pianeti quando ci si spinge oltre i propri orizzonti. Il proprio corpo e la propria vita invece no. Si vive con se stessi da sempre e per sempre e certe cose non si scoprono all’improvviso, semmai, si coprono”.
In merito all’argomento, l’autore ha detto: “Le prime persone che hanno letto il libro mi proposto di evitare di usare la parola ‘lesbica’ perché giudicata troppo forte”. Parlo di persone che si definiscono estremamente moderne e aperte. Persone che vivono in una società in cui certe parole, come lesbica, risultano fastidiose. Il libro è pieno di parole forti. La vita di Angelica ne è piena. Resterete molto sorpresi dallo scoprire quanto possano essere diverse le persone che si presentano ai nostri occhi. Angelica finirà per comportarsi come nessuno, neanche lei, aveva mai immaginato. Scoprirà di essere davvero se stessa solo rompendo le regole”.
Libera per tutti esce il 5 ottobre 2018 in libreria e nei principali digital store.  






1.
Angelica
Ventisette, ventotto, ventinove e trenta. Aveva chiuso il rubinetto e si era girata verso l’asciugamano. Per una corretta igiene, le mani vanno lavate per almeno trenta secondi, lo aveva letto in una di quelle riviste che sua madre teneva nel cesto di vimini in bagno. Una di quelle con la modella o la velina di turno in copertina, pronta a confessarti che per essere “belle naturali” basta sorridere e fare lunghe passeggiate. Poi tutti a ingozzarsi di pasta. Quelle riviste la tenevano in ostaggio, tra il lavandino e il water, per intere mezz’ore. In quelle pagine c’era tutto ciò che le interessava nella vita: belle donne e regole di igiene. Si stava strofinando le mani con cura sul morbido cotone dell’asciugamano, mentre il pensiero di toccare la maniglia della porta con la mano umida le procurava ansia. L’umidità favorisce il proliferare dei batteri. Era una di quelle verità assolute che aveva sentito da qualche parte e che possedeva da tutta una vita. Non era necessario trovare conferme o smentite. Lo sapeva da sempre, e sempre è una buona garanzia di verità.
Aveva scelto con cura il jeans scuro e la camicia rossa, aveva indugiato più volte sul terzo bottone, ma alla fine aveva deciso di tenerlo chiuso. Si era raccolta i capelli in una bella coda alta che le valorizzava il viso e infine aveva dato alla bocca una passata di lucidalabbra. Guardò l’orologio e a malincuore zittì Chris Martin che cantava con i Coldplay dentro il suo smartphone. Soffocò, mentre prendeva aria per cantare il ritornello con il crescendo della batteria quasi al culmine. Quell’ennesima attesa non valeva un rullo di tamburi.
Angelica si mise una mano tra il petto e la pancia, dove la gastrite stava incendiando ogni cosa. Ingoiò una caramella antiacido comprata in farmacia e si premette il pugno sopra lo stomaco, come per spegnere una enorme sigaretta sulla “bocca dell’anima”, così come la chiamava sua nonna. La sua era un posacenere. Nero e sporco.
Fece un lungo respiro davanti alla porta della sua stanza con una sensazione d’acido che si arrampicava ingordo fino alla bocca. Chiuse gli occhi e ingoiò l’ennesimo boccone amaro.
Era pronta.
«Con chi esci?» le aveva chiesto sua madre. «I soliti!» aveva risposto l’eco del pianerottolo. Angelica da qualche mese usciva di casa come si farebbe in caso d’incendio. Così i suoi genitori parlavano con delle voci, manco fossero dei medium: voci provenienti dalla stanza in fondo al corridoio, voci ovattate di un cellulare sempre senza campo, voci basse e approssimative che facevano lo slalom tra il non detto e l’omesso, senza mai scivolare. Era meglio ridurre al minimo i convenevoli, fare in modo che i suoi non facessero troppe domande. “I soliti” con cui usciva Angelica per sua madre non erano soliti per niente. Erano solo dei nomi che non si collegavano a nessuna delle facce degli amici della figlia che in passato erano entrati in quella casa. Nomi che spesso cambiavano e che – per vestirsi di un po’ di credibilità – suonavano vagamente esotici o stravaganti. Non c’era tempo per la seconda domanda. La velocità è da sempre l’abilità dei bugiardi, la principale capacità di quelle persone che ogni giorno corrono i cento metri delle cazzate, quelli che scattano veloci cercando una via di fuga ma non riescono a resistere alle lunghe distanze.
La madre di Angelica era una cinquantenne che dimostrava almeno dieci anni in meno. La sua giornata era scandita dai programmi di Maria De Filippi, una sorta di spirito guida della sua vita. Quando si trovava ad affrontare un problema o una difficoltà, qualcosa che spezzasse la sicurezza delle sue giornate, la mamma di Angelica faceva un lungo respiro e pensava: Cosa farebbe adesso Maria? Era sempre stata una gran chiacchierona e amava condividere la vita della figlia. Condividere su Facebook, chiaramente.
La signora Adele, occhi verdi e capelli perennemente arruffati, vedeva in Angelica la massima espressione di quel bello che aveva sempre sognato per lei. Era particolarmente orgogliosa della figlia, ma viveva nell’illusoria e rassicurante proiezione di decenni ormai passati: gli anni in cui Angelica le raccontava la sua giornata di ritorno da scuola e poi faceva ridere tutti a tavola con le imitazioni dei familiari. Tra le due, improvvisamente e senza un apparente motivo, si era alzato un muro, o meglio, una sorta di specchio pronto a riflettere immagini piene di bugie, che sembrano attendibili ma si rivelano l’esatto contrario della verità. Uno specchio pronto ad appannarsi con il fiato ogni volta che le due provavano ad avvicinarsi troppo. Così Adele guardava Angelica, come si guarderebbe a un bel paesaggio. La osservava con gli occhi nascosti della sua Reflex acquistata dopo il corso online di fotografia e rubava foto da condividere con i suoi centotrentotto amici su Facebook. Ecco come Adele condivideva la vita della figlia, su un social network.
Angelica era bella senza avere la presunzione di esserlo. Come quelle frasi dei bambini dette senza intenzione che riescono a spiazzare per profondità e innocenza. Capelli e occhi castani, una carnagione chiara. Cromaticamente comune ma incredibilmente unica nel suo insieme, armoniosa e perfettamente fuori tono con il resto del mondo. Anche la dinamica delle forme sembrava essere progettata sulla base di calcoli e teoremi. Tutto era troppo, dall’altezza al seno. Uno di quei troppo senza accezione negativa, un troppo incredibilmente misurato.
Angelica però non condivideva né con la madre né su Facebook, un amplificatore di solitudine che aveva spento qualche mese fa. D’altronde, come poteva essere trasparente quando sentiva di vivere una vita torbida, come raccontare chi era se anche lei non aveva la risposta?
In Piazza Duomo la attendeva una trentaduenne dai capelli neri patita delle Harley-Davidson. Questo era tutto quello che sapeva.
Si era fermata con la macchina nel primo parcheggio libero, era in anticipo di quasi venti minuti. Troppi. Fuori dai finestrini c’era la sera che precipitava sul Duomo. Poche luci, troppa gente. Il rumore del suo respiro sembrava in dolby digital surround. Prendeva tutta l’aria che poteva, contava da uno a cinque senza muovere un muscolo e poi buttava tutto fuori fino a sentir cedere il corpo. A uscire, però, c’era solo il fiato, i timori e le ansie restavano dentro. Lo faceva per quattro volte come era scritto sulla rivista del bagno ed era l’unico rimedio all’ansia che non costava nulla e non necessitava dell’aiuto di qualcun altro.
L’autoradio vomitava una canzonetta pop stucchevole e incessante. I bassi ipnotici del ritornello in serie esplodevano nevrotici dentro l’abitacolo e si ripetevano senza tregua rendendo il tempo viscoso e l’attesa estenuante. Angelica prendeva piccole boccate d’aria e assorbiva note grondanti di anestetico. Aspettava la fine di quell’ennesimo “baby baby”, la fine di quei venti minuti, la fine di quell’appuntamento.
Angelica era lesbica e non l’aveva capito, non l’aveva “scoperto”. Capire e scoprire sono due verbi che coinvolgono necessariamente qualcosa di sconosciuto fino a quel momento. Si capiscono le divisioni in colonna a scuola e si scoprono nuovi pianeti quando ci si spinge oltre i propri orizzonti. Il proprio corpo e la propria vita invece no. Si vive con se stessi da sempre e per sempre e certe cose non si scoprono all’improvviso, semmai, si coprono. Angelica aveva sempre coperto tutto. L’interesse fuori misura per le compagne di classe, l’eccitazione incontrollata nel vedere i video sexy delle cantanti, le domande dalla risposta sempre uguale. Arriva il momento, però, in cui sotto il tappeto non ci entra più nulla, il giorno in cui si scoprono i fatti e tutta la polvere accumulata negli anni si sparge ovunque, cadendo lenta, offuscando anche i propri pensieri, entrando nei polmoni e togliendo il respiro. Si era ritrovata senza fiato. Senza orientamento. E ci aveva messo un po’ a capire dov’era. A capire chi era. Angelica odiava essere lesbica. Odiava avere troppe certezze e non avere alcuna sicurezza allo stesso tempo. Era certa: non si sarebbe sposata. Non avrebbe avuto dei figli. Era insicura quando parlava di sé, ogni parola che potesse confermare la sua identità era incerta, sussurrata, tremante.
Angelica era davvero lei solo dietro i suoi occhi marroni, tutti coloro che le stavano davanti guardavano una versione rieditata per il grande pubblico. Se sei lesbica tutto è già deciso, e non hai deciso tu, pensava spesso. Progettava di diventare abile nell’arte della menzogna, di diventare brava a ignorare, così da farsi scivolare addosso frasi e giudizi da evitare. A volte credeva che tutto col tempo si sarebbe aggiustato ma, molto più spesso, era convinta che gli anni, con il loro trascorrere e con la loro indifferenza silenziosa, l’avrebbero condotta a una casa vuota come la pancia che non sarebbe mai cresciuta, la stessa che da bambina camuffava con un cuscino sotto la maglietta.
Angelica aveva sempre fatto il gioco della famiglia, come tutte le bambine. Disegnava il vestito del suo matrimonio e componeva i pezzi del suo principe azzurro. Quei sogni non c’erano più, ma aveva la netta sensazione di non essere stata lei a spazzarli via. Aveva provato a scegliere la sua vita, ma ogni fidanzato l’aveva rimessa sulla strada originale. Perfino Chris Martin.
Questo tipo di pensieri le martellava in testa ogni volta che aspettava il sonno tra il lenzuolo e il cuscino o attendeva in macchina il nuovo appuntamento. Succedeva anche stavolta, mentre si strofinava nervosamente le mani nell’Amuchina. Non le erano bastati ventiquattro anni per trovare coraggio, per abituarsi alle sue giornate che sentiva cupe e senza luce. E vivere senza luce voleva dire avere paura. Ne aveva anche adesso che apriva lo sportello e andava verso la notte scura, la sua vita in ombra e il suo appuntamento al buio.

2.
Claudio
8.10 del mattino. Claudio emergeva nello specchio, sotto strati di vapore denso, come un rifiuto portato dal mare dopo una mareggiata. Aveva spalancato il suo logoro accappatoio blu petrolio e si era messo a fissare la pancia. Era la sua ma ci stava dentro a malapena come in un maglione della passata stagione, stretto e fuori moda. Eccola lì, lei c’era.
Odiava passare inosservata e adesso, nel caso in cui qualcuno non l’avesse ancora notata, si mostrava presuntuosa come una diva sul palcoscenico. Era così morbida e rassicurante. Flessuosa. Gli veniva voglia di cingerla con due mani, affondare le dita nella pelle soffice e scuoterla, rivoltarla, osservare il suo ondeggiare ipnotico.
La sua pancia era indiscutibilmente “uomo”. Era l’apoteosi della femminilità ma era la cosa più maschile che si potesse trovare nei trentenni come lui.
Ma quale barba, quali responsabilità!
La linea di transizione che separa i ragazzi dagli uomini è curva, un semicerchio. Una bella pancia. Una pancia degna di questo nome è quella che ti fa alzare la maglietta davanti a uno specchio e ti fa restare mezzo minuto a fissarla.
Claudio si mise di profilo, soppesò con la mano tutto lo strato di adipe che riusciva a prendere e poi richiuse l’accappatoio con uno scatto nervoso. Tra cento giorni avrebbe compiuto trent’anni, e il suo corpo glielo diceva.
Fino a qualche anno prima la sua pancia non esisteva, c’era un ventre piatto di quelli che se ne fregano. Se ne fregano di quello che mangi e di quanto ti muovi. Due anni di canottaggio e tre di pallavolo buttati al vento, nulla in confronto ai temibili trenta. E comunque bastava guardarsi in giro, non si poteva fare nulla. È la natura, pensava.
Floride pance erano sbocciate sugli addomi di tutti i trentenni che Claudio conosceva. Arrivavano così, all’improvviso, dopo mesi di lievi gonfiori sottovalutati, presi sottogamba. Un lunedì indossavi camicie stretch e per il fine settimana rischiavi di pisciare senza vedertelo. La pancia era il simbolo della seconda pubertà di tutti i maschi, quella che le femmine avevano vissuto molto prima, con il festoso esplodere dei seni.
Il ventotto maggio Claudio avrebbe compiuto trent’anni ma la pancia era l’ultimo dei suoi problemi. Questa è l’età in cui si decide tutto. Adesso è il momento per capire se sarai qualcuno che conta o se sarai uno come gli altri.
Poteva quasi vederlo, una specie di conto alla rovescia velocissimo, sopra la sua testa. Sei cifre al led rosse che correvano e correvano. Secondi, minuti, ore. Claudio lo sapeva di aver vissuto al fresco fino a quel momento. Lo stesso fresco di un frigorifero dove metti il latte da consumare entro tre giorni, prima che vada a male. Poteva vederla la sua data di scadenza, era vicina ma lui era lontano, era sempre indietro.
La sua mente volava in quella direzione ogni volta che era lasciata libera e atterrava in un groviglio buio e fittissimo di sensi di colpa.
Studente: fuori sede, fuori corso, fuori tempo, fuori peso. Mancavano ancora cinque esami alla laurea in giurisprudenza, centinaia di pagine che si portava dietro da un anno e mezzo e che ponevano la sua laurea a una distanza indefinita. Ancora un altro anno? Due? Poco importa, perché aspettare non serve a niente quando il tuo turno è già passato. Sapeva che iniziare una carriera come quella di avvocato a trenta anni suonati sarebbe stato impossibile. Dopo la laurea c’era la scuola di specializzazione, il tirocinio, l’abilitazione, i concorsi. Per i suoi genitori doveva fare il magistrato. Lo avevano deciso un decennio prima, ma era come se lo sapessero da sempre. Erano anche a conoscenza di concorsi per entrare in Parlamento e di gente che diventava ministro da un giorno all’altro, semplicemente inviando il curriculum alla sezione “Lavora con noi” del sito www.ministri.it. I signori Baioni credevano di sapere tante cose ma erano completamente sconnessi dalla realtà, il loro era un mondo fatto di cugini di secondo grado che facevano i notai, figli di amici divenuti dirigenti d’impresa, ragazzetti cresciuti in fretta e insigniti dell’onorificenza di professore universitario. E il loro figlio? L’unica strada di Claudio, in un modo o nell’altro, doveva portare alla gloria. La sua, ma soprattutto la loro. I signori Baioni erano completamente ciechi di fronte alla crisi e guardavano con sdegno i laureati finiti nei call center. Il deserto di offerte lavorative non era visibile ai loro occhi, il rumore che facevano le speranze distrutte di buona parte dei giovani non era udibile alle loro orecchie. Il suono maestoso della parola “ingegnere”, l’ingegner Milella, il figlio della Lorusso, quello sì che suonava forte e chiaro.
Claudio lo sapeva: ogni due weekend, quando percorreva i settantotto chilometri per ritornare a casa, si trovava davanti un uomo stanco e affaticato, con la testa piena di capelli grigi e cocciutaggine. Suo padre non poteva accettare quanto dicesse il figlio: «Papà, io non posso fare il magistrato, non lo farò mai, ho trent’anni e mi devo ancora laureare». Era un’ipotesi poco realistica, da non prendere nemmeno in considerazione. «Al limite farai l’avvocato» gli diceva, «ma non qui, a Milano. E ti occuperai solo di tributario perché altrimenti fai la fame».
Michele Baioni si era spaccato la schiena per oltre trent’anni, sentiva di aver dato alla vita tutto ciò che poteva, ma era cosciente di aver preso solo il marcio che c’era. Sapeva che le incomprensioni con il figlio erano solo una questione di punti di vista, perché le cose si mostrano in modo diverso a seconda di come le guardi. Michele Baioni dalla vita aveva solo incassato. Ora era il momento di cambiare il punto di vista, non più incassare come sopportare senza reagire, ma incassare come riscuotere. A cambiare il punto di vista doveva essere Claudio.
Era lui stesso che doveva cambiare tutto e invece non si cambiava nemmeno la maglietta. Indossava la stessa polo blu da mesi. La metteva per due o tre giorni, poi la rilavava la sera, solo quando sapeva di non avere lezione l’indomani mattina e se la rinfilava il pomeriggio. La polo blu era l’unico indumento che poteva permettersi. Claudio non conosceva la povertà di quelli che non hanno nulla da mettersi addosso, però conosceva la povertà dei vestiti, quella della stessa polo blu sbiadita indossata per settimane, una polo che raccontava tra le righe più di quello che doveva. Era una povertà precaria, che mutava di continuo, dall’ansia alla vergogna. La polo però era sempre la stessa perché i soldi racimolati facendo il lavapiatti, l’agente di rappresentanza o il cameriere, bastavano appena per l’affitto e un paio di pranzi. E poi c’era la pancia dei trent’anni che aveva reso le altre tre magliette chiuse nell’armadio dei top che nemmeno Britney Spears avrebbe osato indossare.
I signori Baioni avevano smesso da tempo di salutare il figlio con banconote da cinquanta euro e quando il lunedì mattina, dopo un weekend dai suoi, Claudio si preparava per tornare a casa – quella che ormai sentiva essere davvero casa sua, cioè la stanza in affitto in un bilocale a settantotto chilometri dai suoi genitori – al massimo gli lanciavano qualche spicciolo di commiserazione, lamento, rimprovero e insoddisfazione. “E tieni pure il resto” sembravano voler dire. In realtà, quegli spiccioli a Claudio pesavano come macigni e non servivano nemmeno per la benzina della strada di ritorno. Non aveva mai voluto occuparsi di diritto e aveva iniziato l’università per volere dei suoi. Gli era sempre servito spazio, come quello da dare ai suoi desideri, come quello in cui si era perso come un astronauta matricola. Quella facoltà si era rivelata un buco nero e quelle aule dei varchi spazio-temporali. Gli era scivolato addosso un decennio e si era risvegliato in estremo ritardo, con la consapevolezza di dover ottenere un lavoro, uno qualsiasi, purché fosse “da grandi”, un lavoro da uomini. Anche perché lui era già vecchio, almeno secondo la sua agenzia di lavoro interinale che si era vista costretta a eliminare il suo profilo dal database dei possibili candidati perché ritenuto “fuori tempo massimo”.
Non posso farmi dare la paghetta a trent’anni. Non posso farmi trattare in questo modo. Non posso trattarmi in questo modo. Ma che cazzo sto combinando? Mi devo sbrigare. Devo finire. Devo iniziare!
Eccolo un altro punto di vista di incassare ossia inserire tutto in uno spazio ristretto: lavoro-studio-solditempo. Odiava tornare a casa, anche solo per il weekend. Odiava restarci per più di due giorni, i lamenti dei suoi genitori lo rendevano una persona peggiore. Per questo faceva ogni tipo di lavoro, per poter vivere da solo, come aveva fatto negli ultimi undici anni. Michele Baioni commentava i lavori del figlio con la bocca impastata di disprezzo e disgusto: lavorare per qualche centinaio di euro era vergognoso e mortificante per tutta la famiglia, se ci fosse stata la nonna si sarebbe vergognata anche lei. Ma Claudio doveva lavorare e più lavorava e meno studiava. E il tempo scorreva. Di lì a qualche anno non sarebbe più stato “idoneo” nemmeno per fare il cameriere.
Mezzanotte e tre minuti: novantanove giorni al mio trentesimo compleanno.
La pancia era l’ultimo dei suoi problemi. Claudio aveva un fisico atletico. Era alto un metro e ottantadue, spalle larghe, petto ampio, braccia possenti e una pancia invadente. Un fisico ibrido, in trasformazione. Un’evoluzione ancora incompleta tra prima e dopo, ragazzo e uomo, speranze e fallimenti.
Il suo fallimento più grande non lo confidava quasi a nessuno. Lui scriveva canzoni. Lo faceva da una vita, lo faceva bene ma sempre meno. Rinunciare a quello che si pensa di saper fare meglio nella vita è doloroso. Ma era stata una scelta obbligata perché con le strofe e le rime non si paga l’assicurazione dell’auto e la chitarra è meglio suonarla di notte, da soli.
Quello di voler fare il cantautore era un sogno inflazionato. Non si poteva più dirlo a nessuno senza essere preso per uno di quelli che pubblica su Facebook selfie con facce da videoclip. Tutti volevano fare i cantautori, tutti restavano in fila sotto al sole per fare parte del cast di questo o quel talent show. Bisognava trovarsi un sogno vero, uno da poter raccontare con orgoglio, senza essere scambiato per una versione appena più elevata della velina. Questo era un sogno tarocco, inattendibile.

 E poi, quando vuoi fare il cantautore e ti chiami Claudio Baioni, che credibilità pensi di avere?
  








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